di Virgilio Fagone – Fonte Il Giornale di Sicilia/
La cattura del boss corleonese Salvatore Riina segnò il primo passo della offensiva dello Stato contro Cosa nostra dopo le stragi del ’92 in cui caddero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino assieme agli agenti di scorta. Sono passati trent’anni da quel 15 gennaio del 1993, quando i carabinieri intercettarono l’auto del capomafia appena uscita dal residence di via Bernini in cui viveva da tempo con la famiglia e misero le mani sul superlatitante, che era riuscito a sfuggire alla cattura per 24 anni. Riina, seduto sul sedile del passeggero di un’anonima Citroen Zx grigia, guidata da Salvatore Biondino, fu bloccato quando mancava poco alle 8,30 e l’auto aveva appena superato il motel Agip su via Regione Siciliana. Il capitano Ultimo aprì lo sportello: «Riina, lei è catturato per mano dei carabinieri».
La cattura di Salvatore Riina si è portata dietro una serie di misteri, a cominciare da quello sulla mancata perquisizione sul covo di via Bernini sino alla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia per fare cessare la stagione delle bombe. Il boss corleonese, che ha trascorso in carcere quasi un quarto di secolo sommerso da decine di ergastoli, è considerato l’artefice di quella sanguinaria stagione del terrore a suon di morti ammazzati e attentati condotta a cominciare dagli anni Settanta, quando i corleonesi presero il dominio di Cosa nostra con una guerra interna ai clan che lasciò sul terreno circa tremila vittime. Un’epoca in cui venne scagliata un’offensiva anche contro magistrati, investigatori, politici e giornalisti, falciati dal piombo mafioso. Molti di questi delitti, messi a segno in un periodo in cui la Sicilia era governata da un perverso accordo di potere politico-affaristico-mafioso, sono ancora avvolti dal mistero riguardo al movente e anche, in alcuni casi, agli esecutori materiali.
Quel 15 gennaio del ’93, alla vigilia dell’insediamento alla guida della Procura del capoluogo di Giancarlo Caselli, Riina fu subito portato nella caserma e i carabinieri gli scattarono una foto sotto il ritratto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Tarchiato, (tanto da essere soprannominato «’u curtu»), infagottato in un abito da contadino con una sciarpa al collo, disse di avere fatto per anni l’agricoltore e sostenne di avere appreso dell’esistenza della mafia solo da giornali e tv. Mai un cedimento, mai un colloquio con i magistrati, un atteggiamento che non ha mutato. Ed ha sempre ostentato un comportamento da irriducibile. Fu lui, secondo l’accusa, a pianificare la stagione delle stragi all’indomani della sentenza definitiva del maxiprocesso, primo storico colpo contro Cosa nostra, decidendo di arrivare alla «resa dei conti» nei confronti di tutti coloro che avevano dato assicurazione che, alla fine, sarebbe stato possibile evitare gli ergastoli già inflitti ma anche dei magistrati che avevano incardinato lo storico procedimento con oltre 400 imputati. Il primo a essere ucciso fu l’esponente Dc Salvo Lima. Poi a maggio e a luglio vennero piazzate le bombe a Capaci e in via D’Amelio per eliminare Falcone e Borsellino. Azioni terroristiche che provocarono la durissima reazione dello Stato. E pochi mesi dopo l’imprendibile Salvatore Riina finì in trappola.