di Alessandro Corneli /
Sul piano strettamente politico, Matteo Renzi aveva (ha) un tallone d’Achille: il suo accordo (del Nazareno) con Silvio Berlusconi. Un’intesa mal digerita all’interno del Pd che, parallelamente, creava (crea) maldipancia anche in FI. La mossa decisiva l’ha fatto Renzi, accordandosi con il M5S per l’elezione di un giudice della Consulta, provocando sconcerto nelle fila del suo partito, ma più grande in quelle berlusconiane. Per rincarare la dose, ha detto, con il suo linguaggio semplificato, che l’accordo “scricchiola” e ha lanciato un ultimatum a Berlusconi sulla legge elettorale per dimostrargli che il patto del Nazareno sulle riforme non è poi così indispensabile come appare. Per non uscire dal gioco, soprattutto per quanto riguarda la scelta del successore di Giorgio Napolitano, Berlusconi è pronto a cedere, anche se ciò gli costerà qualche altra fetta di partito. Ma un po’ di sconcerto emerge anche nelle fila dei grillini, che si vedono privati del primato del ruolo di opposizione “dura e pura” anche perché ne approfitta Matteo Salvini, pronto ad imbarcare elettori pentastellati e forzaitalisti delusi. Ponendosi super cetera partes, Renzi vuole dimostrare di essere, al tempo stesso, più libero e più forte.
Apro una parentesi: viene il sospetto che aprendo una polemica con i burocrati europei, e quindi con il presidente della Commissione, Claude Juncker, che Renzi abbia avuto sentore in anticipo delle rivelazioni che poi hanno investito lo stesso Juncker per avere favorito, da premier del Lussemburgo, e nel rispetto delle leggi, le multinazionali ansiose di pagare meno tasse possibile.
Oggi i grandi giornali bene in formati hanno aperto, all’unisono, sulla successione al Quirinale. I più danno per certo che, nel messaggio di fine anno, Napolitano indicherà la data del suo ritiro a vita più tranquilla. Ma che cosa dirà se vorrà collegare le dimissioni non a una semplice questione di età e di fatica (a giugno prossimo compirà 90 anni) ma alle ragioni che lo spinsero ad accettare la rielezione? Quelle ragioni erano chiare e, se non sono state dimenticate, si riassumevano in una parola: riforma (della Costituzione e della legge elettorale). A tutt’oggi, la sporta è vuota. Ma è difficile che Napolitano chiuderà con un atto d’accusa alle forze politiche che sono venute meno all’impegno che avevano assunto: spalancherebbe le porte di tutte le istituzioni al M5S di Grillo.
La legge elettorale, che è una legge ordinaria, potrebbe passare in poche settimane. Renzi la vuole anche perché, secondo alcuni, confortato dai sondaggi, vuole tornare alle urne al più presto, e non vuole che si voti con la legge “proporzionale” uscita dalla sentenza con cui la Corte Costituzionale ha bocciato e modificato il Porcellum. Chi è disposto a concedergli il premio “alla lista”, cioè al Pd? Berlusconi o Grillo? La risposta è sulla scelta del successore di Napolitano, che dovrà essere gradito, oltre che a Renzi, anche a Berlusconi o a Grillo. Impossibile però che possa piacere contemporaneamente a entrambi. Qui è il nodo.
Eugenio Scalfari, su Repubblica, ha detto la sua con la solita sicurezza:
– Napolitano “darà le dimissioni entro la fine dell’anno” anche se il suo desiderio di vedere realizzate le riforme “resta inappagato”
– “Draghi non ha alcuna intenzione di andare al Quirinale”, ma la situazione economica potrebbe modificare la situazione
– “Renzi e il suo partito vorranno ora un inquilino del Quirinale che riconosca la primazia del capo del governo” ma questo sarebbe “un ritorno al passato”, all’epoca dell’egemonia democristiana quando i presidenti della Repubblica obbedivano alla Dc (parziali eccezioni: Gronchi e Pertini). Questo perché “il progetto di Renzi è di ritornare alla vecchia Dc nel suo rapporto con il Quirinale”.
È chiaro, nel pensiero di Scalfari, i giudizio negativo sul “progetto” di Renzi: rifare la Dc e mettere ai suoi ordini il Quirinale. Perché significherebbe che la deriva presidenzialistica Scalfaro-Ciampi-Napolitano verrebbe archiviata: tutto il potere tornerebbe nelle mani dei partiti e, con la legge elettorale che ha in mente Renzi, nelle mani di “uno solo al comando”.
Com’è logico, ha ripreso spazio il toto-presidente. In cima alla lista, c’è sempre Giuliano Amato (lo vorrebbe Napolitano). Draghi, penso, sarebbe d’accordo perché Amato avrebbe poi la forza di incamminarlo verso Palazzo Chigi dopo avere lasciato, per un altro anno o poco più, Renzi alla guida del governo e consentendo così allo stesso Draghi di concludere il mandato alla Bce (novembre 2015). Solo che la Germania vorrebbe riprendersi al più presto il controllo diretto del seggio di Francoforte, destinato a crescere di importanza visto che Juncker risulterà più debole del previsto, e per questo potrebbe vedere bene Draghi al Quirinale tra pochi mesi.
Ovviamente questa prospettiva non piace a Renzi che vorrebbe al Quirinale un personaggio meno ingombrante, qualcuno che dovesse principalmente a lui la sua elezione. Anche se c’è sempre il rischio che l’abito faccia il monaco, e cioè che la carica trasformi colui che la ricopre. Poiché Renzi vorrebbe restare alla guida del governo fino al 2023, i conti non tornano. Soprattutto non tornano per coloro che non vogliono vedere i giochi bloccati per così tanto tempo. La soluzione più accettabile, per Renzi, sarebbe Prodi, inviso però a Berlusconi, che viceversa accetterebbe Amato. Quanto al M5S, vorrebbe un presidente di garanzia istituzionale: un eufemismo per dire un Capo dello Stato insensibile ai condizionamenti di Renzi e di Berlusconi, anzi pronto a liberarsi dell’uno e dell’altro.
“Situazione delicatissima”, dice Scalfari a giusto titolo, ma la cosa è ovvia. Soprattutto se, a Costituzione invariata – e non si vede come possa cambiare in tempi stretti – il Capo dello Stato conserverà gli ampi poteri diretti e quelli discrezionali che la Carta attuale gli consente. Una Carta che è, per tutti, una trappola da cui è difficilissimo uscire. Perciò non valgono gli argomenti giuridici e razionalizzatori, ma solo la forza dei reciproci ricatti. Se qualcuno pensa che, così stando le cose, l’economia possa ripartire o ripartire alla grande, si sbaglia.