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Faremo tutto quel che è necessario per…La politica del Drone

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di Alessandro Corneli /grrg.eu/

Il 10 dicembre 2009, il Premio Nobel per la pace fu consegnato al presidente americano Barack Obama, da otto mesi alla Casa Bianca, con questa motivazione: “per i suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e cooperazione tra i popoli”. Forse la ragione principale fu il suo impegno a ritirare le truppe americane dall’Iraq o, più probabilmente, il discorso che aveva tenuto all’università de Il Cairo il 4 giugno, in cui aveva fatto grandi aperture (ed elogi) all’Islam e aveva detto che “l’America non è un impero interessato solo a sé stesso”. In ogni caso, fu un Nobel assegnato alle buone intenzioni, che in buona misura si sono perse per strada. Forse la controparte, o un segmento di essa, interpretò quelle parole come una ritirata dell’Occidente e possiamo immaginare che l’ISIS (Stato Islamico) abbia messo le proprie radici in quel discorso. Per il momento, comunque, Obama passerà alla storia come il presidente dei droni.

In Italia, Matteo Renzi segue lo stesso percorso. Giovane quasi sconosciuto al grande pubblico, egli aveva assistito alla Convention democratica che aveva candidato Obama alla Casa Bianca e, di certo, aveva rafforzato la propria fiducia nell’efficacia delle parole, delle promesse. Anche Renzi ha avuto il suo Premio Nobel (per la politica) allorché fu designato dal presidente Giorgio Napolitano a succedere ad Enrico Letta. Renzi si era fatto precedere dalle sue promesse di rottamazione, sulla falsariga di Obama. E anche Renzi fa ricorso ai droni, cioè ai decreti che fa approvare con voti di fiducia, ai twitter e alle apparizioni in tv.

Tutto ciò per segnalare l’articolo a firma di Antonio Polito pubblicato oggi sul Corriere della Sera, intitolato “Le Camere messe da parte”, che inizia con queste efficaci parole: “Da molti punti di vista, quello di Renzi è un governo extraparlamentare; forse il primo di una nuova era”, quella della post-democrazia. Non sto a riassumerlo. Basti accennare al meccanismo che ha messo in moto, reso esplicito dal voto con cui il Senato ha approvato non il Job Act, ma una delega in bianco al Governo per realizzarlo. Ecco, siamo arrivati a utilizzare una vetusta istituzionale qual è il Parlamento affinché approvi un foglio in bianco: tutto il potere si concentra invece in un organo tecno-politico qual è il Governo di nuovo conio: un capo carismatico che prende le sue decisioni consultandosi con il capo dell’opposizione (Patto del Nazareno), incontrando il presidente della Bce nella residenza estiva di questi, svolgendo una relazione al Direttivo del suo partito, consultandosi con i propri esperti e imperversando nei talk show televisivi.

Dopo Obama e Renzi, ecco Draghi, di cui ho già evidenziato la “deriva renziana”, e che ora si accentua. Anche Draghi si fonda sulle parole e utilizza i droni (“Faremo tutto quello che è necessario per…”). Adesso è arrivato a dire che “i politici che non aumenteranno i posti di lavoro non verranno gli eletti”. A parte la “profondità” dell’analisi politologica, che fa ben sperare nel caso in cui arrivi al Quirinale, colpisce l’idea – espressa da un “economista” – che sia la politica a creare i posti di lavoro, pur non avendo più la politica il potere di fare debito oltre la spesa corrente (a dimagrimento) e il pagamento degli interessi sul debito. E non siano invece le imprese a creare posti di lavoro, purché siano messi in condizioni di farlo dalla “politica”.

Si conferma che contro il virus della vertigine del potere non è stato trovato il vaccino che può prevenirlo o curarlo. Una proposta: chi raggiunge una carica apicale (capo dello Stato, capo del Governo, presidente della Bce et similia per ciascuna piramide), finito il mandato deve ritirarsi a vita privata e non può ricoprire nessun altro incarico, di nessun genere.

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