di Alessandro Corneli – www.grrg.eu
A Genova, Matteo Renzi è stato perentorio (e suadente): “E’ ora che Epifani fissi il congresso e si decidano le regole. Io sono disponibile a guidare il Pd ma poi decidono gli elettori”. Vuole il congresso del Pd, vuole regole che non lo penalizzino e vuole conquistare la segreteria del partito con un largo consenso della base. Per svecchiarlo, rottamare il passato e fare fuori le correnti. Cosa, quest’ultima, la più difficile.
Poi si è lanciato in una serie di banalità che strappano gli applausi. Del tipo: “Il punto non è quello che faccio da grande ma quello che facciamo insieme per un partito che non sbagli il calcio di rigore a porta vuota ma torni a vincere”. Oppure: “Al congresso non voglio i voti dei renziani ma il voto di uomini liberi che hanno a cuore l’Italia”.
Il bersaglio preferito è stato Pierluigi Bersani. Con le primarie aperte dello scorso anno, ha ammesso, “sono convinto che avrei perso lo stesso”, ma il Pd “non avrebbe perso le elezioni, perché abbiamo mandato via delle persone” che avrebbero voluto votare per il Pd.
E giù di nuovo con le battute: “Se in campagna elettorale avessimo pensato un po’ meno a smacchiare il giaguaro e un po’ più al lavoro, al governo c’eravamo noi senza Schifani e Alfano”. Infatti, “abbiamo dato l’immagine di un partito chiuso nella paura, ma le lezioni si vincono con il coraggio non con la paura. Una parte degli elettori si era rotto le scatole per la nostra inconcludenza e incoerenza su temi come il finanziamento pubblico o la legge elettorale”.
Non parlo di populismo, ma di banalismo. E Matteo Renzi è un maestro della banalità. È l’uomo adatto per parlare a un elettorato che potrebbe, tra poco, essere privo di Silvio Berlusconi e, allo stesso tempo, del vecchio establishment del Pd. È adatto anche ad esercitare una certa attrazione sull’elettorato grillino.
Non sappiamo ancora con quale legge elettorale, ma potrebbe essere il vincitore delle prossime elezioni poiché, è evidente, vuole la segreteria del Pd per essere poi candidato premier. Da Palazzo Vecchio a PalazzoChigi: questo è il percorso che si è tracciato. E che, probabilmente, percorrerà fino in fondo.
Per il momento, l’unico avversario serio a sbarrargli la strada è Enrico Letta, dietro il quale si schiera il vecchio establishment del Pd, e questo costituisce per lui un elemento di debolezza, tanto è vero che si è spostato a sinistra, sia sulla questione della decadenza di Berlusconi sia sulla natura anomala e provvisoria del governo che pure presiede. Il suo punto di forza è che gode dell’appoggio di ambienti esterni al Pd.
Che cosa potrà fare Renzi una volta arrivato a Palazzo Chigi resta un mistero. Avrà pure a cuore l’Italia, ma quale Italia abbia in mente non si sa. È bravo nelle pubbliche relazioni e ha una facile parlantina, ma ha anche gioco facile rispetto ai suoi mummificati e cervellotici compagni di partito e ai leader (quali?) degli altri partiti, soprattutto se Berlusconi uscirà dal gioco.
A proposito di Berlusconi, l’ultima evoluzione della strategia sarebbe di andare fino in fondo, magari allungando i tempi, con la perdita del seggio senatoriale, cui seguirebbe un atto di clemenza di Napolitano. Il punto ancora oscuro è questo: l’eventuale atto di clemenza gli consentirebbe di rientrare in politica? Napolitano consentirebbe a Berlusconi, cacciato dalla porta, di rientrare dalla finestra? Le “colombe” del Pdl (Quagliariello, Lupi, Cicchitto) ne sembrano convinte. Ma molti “quirinalisti” ritengono che Napolitano voglia un passo indietro (definitivo) da parte di Berlusconi, cioè l’abbandono della politica, e senza passare il testimone alla figlia. Solo così, deducono altri analisti e commentatori, si spaccherà il Pdl e libererà i suoi voti: da una parte i nostalgici e i fedelissimi (bisognerà vedere quanti ne rimarranno se dovranno disporre solo delle loro forze), dall’altra coloro che si porranno come obiettivo la costituzione di un “partito moderato di stampo europeo” (mistero fitto sul significato dell’espressione) a vocazione governativa.