Google ha risposto picche alla richiesta dell’Unione Europea di rinviare l’applicazione della sua nuova politica di trattamento dei dati personali degli utenti che verrà introdotta il primo marzo: «Chiedete e vi spiegheremo, ma rinviare no: su queste nuove regole abbiamo fatto il maggiore sforzo di comunicazione della nostra storia. Cambiare ora significherebbe disorientare i clienti».
Sembra un’arida disputa tra una sbrigativa azienda americana e burocrati europei che cercano di tutelare un interesse legittimo come la «privacy» rifugiandosi nella logica del rinvio e dell’esame analitico di documenti e procedure. In parte c’è anche questo, ma stavolta lo scontro Google-Ue è molto di più: potenzialmente una battaglia economica e culturale a tutto campo tra un Continente in crisi ma sempre forte dei suoi 500 milioni di consumatori che ha deciso di intervenire a tutela dei cittadini e di non restare inerte davanti alla conquista del suo mercato pubblicitario da parte dei giganti di Internet e, dall’altro, queste ultime imprese: non solo Google ma anche, ad esempio, Facebook che ha appena annunciato una quotazione in Borsa che gli attribuirà un valore di quasi 100 miliardi di dollari. Una capitalizzazione basata sulla sua capacità di offrire agli inserzionisti pubblicitari i profili degli utenti oggetto delle loro campagne.
Come Google, sotto inchiesta a Bruxelles anche per violazioni delle norme Antitrust, anche Facebook è, infatti, finito nel mirino dell’Unione Europea. Tra Google e Ue adesso si rischia un muro contro muro complicato da incomprensioni culturali e ostacoli istituzionali, prima ancora che dai diversi interessi economici.
Alla base di tutto, due traiettorie confliggenti: da un lato Google che decide di modificare le procedure relative all’utilizzazione dei dati personali dei suoi utenti dei vari servizi (il motore di ricerca, Gmail, i video su YouTube, eccetera), unificandole in un unico protocollo valido per tutti i suoi prodotti digitali. Secondo l’azienda un vantaggio per gli utenti che dovranno fare le loro scelte di «privacy» una sola volta e che beneficeranno dei servizi di un’intelligenza artificiale a quel punto senza più limiti: capace, ad esempio, di proporti film sulla pesca quando vai su YouTube perché ricorda che avevi cercato con Google Search una canna e delle esche. Ma anche un vantaggio enorme per Google visto che quella dei dati dei consumatori sta diventando la nuova moneta mondiale.
Dall’altro lato c’è la traiettoria dell’Unione Europeache, dopo anni di resistenza abbastanza sterili, sembra ora più determinata a tenere testa a i giganti di Internet. La decisione del Commissario europeo alla Giustizia Viviane Reading di chiedere a Google di sospendere le sue nuove procedure per consentire alle «authority» di controllo della Ue di verificare la loro piena compatibilità con le normative comunitarie si inserisce, infatti, in un’offensiva più generale: il 25 gennaio la stessa Reading ha presentato un ampio programma di protezione dei dati personali vincolante non solo per le imprese della Ue, ma anche per quelle extracomunitarie che operano «online» su questo mercato. Norme abbastanza complesse: per omogeneizzarle e farle adottare da tutti i 27 partner comunitari ci vorrà almeno un anno.
Bruxelles solleva problemi reali, ma le difficoltà di tipo politico e istituzionali rischiano di alimentare le incomprensioni con le imprese Usa e col governo di Washington che spesso interviene, in questi casi, a loro sostegno. In base alle nuove norme, ad esempio, l’indagine su un’impresa extracomunitaria dovrebbe essere compiuta dall’«authority» di controllo del Paese della Ue nel quale l’azienda in questione ha la sua sede europea. Per Google toccherà ai «controllori» della Francia, visto che la sua base principale nel nostro Continente è a Parigi, anche se la società californiana obietta che la sua sede legale in Europa è a Dublino. Materia controversa anche perché i partner europei a volte hanno visioni diverse in materia di «privacy».
Bruxelles, poi, vuole inserire nelle nuove norme concetti importanti ma difficili da applicare in modo integrale, come quello del «diritto all’oblio»: il diritto dell’utente di cancellare dal web, se lo desidera, tutti i dati – foto, testi, messaggi – che lo riguardano. «In realtà – obietta Jeffrey Rosen, giurista della George Washington University – questo è un campo minato legale: rischiamo un drammatico conflitto tra diritto alla privacy e libertà d’espressione» perché, per cancellare tutti i documenti personali di un utente, compresi quelli che sono già stati condivisi, le società di Internet e i social network «dovrebbero trasformarsi in grandi censori».
Complessi argomenti giuridici dietro i quali si celano questioni essenziali per la vita delle società democratiche: fino a che punto imprese che offrono servizi digitali ormai entrati sotto la nostra pelle possono integrare e organizzare le nostre vite? E, ancora, fino a che punto è accettabile che il controllo del mercato pubblicitario – linfa vitale del sistema di informazione dei cittadini – venga sempre più concentrato nelle mani di poche società padrone della chiavi della «privacy» e di tecnologie capaci di scrutare l’anima di miliardi di persone?