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BOLOGNA – Dov’è finita Bologna?
A cura di Aldo Cazzullo – Dove sono finite le grandi famiglie dell’industria? I Gentili hanno venduto i saponi Panigal ai tedeschi, i Sassoli de’ Bianchi hanno venduto la Buton agli americani, i Goldoni hanno venduto agli inglesi, i Ferretti (barche) ai cinesi, i Gazzoni Frascara hanno venduto l’Idrolitina e le Dietorelle agli svizzeri; ma il caso più doloroso è quello dei Galletti, che hanno venduto la mortadella Alcisa ai modenesi. Ai Galletti resta però il ristorante Diana, tempio della borghesia cittadina, dove eredi delle varie casate, dopo aver investito in alloggi da affittare agli studenti, si ritrovano per il pranzo della domenica.
Dove sono finiti i cinema del centro di Bologna? I più grandi hanno chiuso: l’Arcobaleno di piazza Maggiore, il Metropolitan e l’Imperiale di via Indipendenza. Se non altro, al posto del cinema Ambasciatori c’è la libreria Coop, arrivata seconda al concorso dei negozi più belli al mondo (il vincitore è in Cina). Ma dell’Apollo hanno fatto un centro commerciale, dal Giardino, dal Marconi, dall’Adriano e dal Minerva hanno ricavato appartamenti, sempre da affittare a studenti; chiusi anche il Settebello, l’Olimpia, l’Embassy, il Fulgor; il Nosadella ha traslocato in periferia; il Fellini di viale XII giugno ora è una sala scommesse.

Dove sono finite le fabbriche di Bologna? Chiusi i cantieri Fochi, chiuse le officine Casaralta. Chiusa la Malaguti, in crisi da anni la Moto Morini, regge la Ducati, che però non è più la fabbrica di un tempo, dove lavoravano tante operaie da indurre William, leggendario macellaio dal collo taurino, ad aprire bottega ai cancelli; e ai colleghi, che gli chiedevano notizie, rispondeva: «Vedo passare settemila ragazze, vuoi che non ne abbia avute il dieci per cento?» (William non diceva esattamente «avute»).

A proposito: dove sono finiti i macellai di Bologna?Erano più di 700 all’apice del boom economico, ora sono meno di cento. Decimata una categoria importante nella storia di una città sanguigna e gaudente: beccai erano i Carracci, sublimi pittori; beccai erano i Bentivoglio, che quando divennero notai e signori di Bologna conservarono la bottega, per ricordare a sé stessi da dove venivano. Simbolo di vigore e potere, la mercatura delle carni ha esercitato per secoli una primazia sulle altre, segnata anche dalle gesta erotiche; così, quando un macellaio confidò ai colleghi che la moglie lo tradiva con un fruttivendolo, venne espulso dalla categoria. Fu un sodale di William, Raffaellino, a motivare la sentenza: «Sono tre secoli che noi frequentiamo le mogli dei fruttivendoli, e finora non era mai accaduto il contrario!» (Raffaellino non disse esattamente «frequentiamo»). Quando nel ’99 uno di loro si candidò a interrompere 54 anni di governo comunista, un barone universitario disse che un ex macellaio con la licenza media non poteva fare il sindaco di Bologna. Il giorno dopo, Giorgio Guazzaloca fu travolto dall’abbraccio di artigiani e operai comunisti, che come lui non avevano potuto studiare.
Dove sono finiti i cantautori, gli artisti, gli intellettuali bolognesi? Qui avevano preso casa Gianna Nannini e Renato Zero, Antonio Albanese e Diego Abatantuono, Umberto Eco e Michele Serra: se ne sono andati tutti. Neppure Francesco Guccini abita più in via Paolo Fabbri 43, nel quartiere piccoloborghese della Cirenaica, accanto al vecchio pensionato del numero 45, cui dedicò una delle sue canzoni più malinconiche; e quando lo seppero, i vicini del numero 41 andarono a bussare a Guccini all’alba, badando a non essere visti, e gli sussurrarono: «Noi preferiremmo non comparire…». È tornato a Bologna però Lucio Dalla, ha comprato casa sui tetti di san Petronio, dove da ragazzo gli capitava di uscire, “per sentire gli odori dei mangiari e i discorsi della gente”, e talora di addormentarsi. In questi giorni di neve sta limando la canzone che porterà a Sanremo, cedendo alle insistenze di un compagno di giovinezza: «Con Gianni Morandi tutte le domeniche tifavamo Bologna allo stadio. Ma lo spareggio del ’64 contro la Grande Inter si giocò a Roma, e non avevamo i soldi per andarci. Così accendemmo la radio davanti a una parete bianca, immaginando di proiettare la partita sul muro. Quando segnò Fogli, dalle finestre aperte arrivò il grido di 400 mila persone, il grido della città».

Dov’è finita la Bologna della politica? Questa era la capitale dell’altra Italia, del partitone comunista. Poi è diventata il laboratorio dell’Ulivo e del Partito Democratico, inventato da Nino Andreatta, costruito da Prodi e da Parisi. Ma il Pd, almeno come lo sognavano Andreatta e suo figlio Filippo, non è mai nato o perlomeno ha perso le radici bolognesi. Gli intellettuali del Mulino litigano, hanno fatto fuori il direttore della rivista Ignazi, ora devono scegliere un nuovo presidente al posto di Pedrazzi. Per il resto, a Fini di bolognese resta solo l’accento, Casini torna qui la domenica per portare al Diana la madre e il fratello Federico, identico a lui. Non si riesce neppure a trovare un sindaco bolognese: Cofferati era di Cremona, Delbono di Mantova. Incappato in un brutto scandalo – la fidanzata segretaria, le missioni-vacanza in coppia, il bancomat finanziato dall’amico imprenditore – si dimise dopo che le bolognesi sfilarono sotto il Comune con uno striscione definitivo: «Contro la crisi, bancomat per tutte». Adesso c’è Virginio Merola, da Santa Maria Capua Vetere, ma non è che abbia lasciato tracce; tanto meno quelle degli spartineve, che si sono visti poco e tardi. Un po’ tutti dicono che la città è governata da Errani, presidente della Regione, e da Roversi Monaco, presidente della Fondazione Carisbo. E quindi c’è da preoccuparsi se Fabio Roversi Monaco, interrogato sulla sua Bologna, parla di «decadenza comoda».

Nato nel ’38 ad Addis Abeba, figlio del governatoredella regione di Sabbatà, per strada viene fermato da parroci che gli chiedono di restaurare anche la loro chiesa, come ha fatto con San Colombano e con il Compianto di Niccolò dell’Arca, lo splendido gruppo in terracotta con le Marie che piangono il Cristo. Spiega Roversi Monaco che i due veri punti di forza sono l’Università e la Fiera. Lui è stato rettore dell’Università per 15 anni e presidente della Fiera sino a sei mesi fa, e ammette che le cose non vanno benissimo: la città resta ricca, ma ancora non s’accorge del ridimensionamento. Di «grave decadenza» parla ogni 4 ottobre, san Petronio, e a ogni Te Deum del 31 dicembre anche l’arcivescovo Carlo Caffarra. Il suo predecessore Biffi definiva Bologna «sazia e disperata»; ora non è neppure così sazia. I mitici asili nido costano fino a 575 euro al mese, come collegi svizzeri; il metrò non si è fatto, e 49 bus «intelligenti» Civis, pagati e mai usati, languono nei depositi. Della Fiera si parla sui giornali per l’arte, che riguarda poche centinaia di mercanti e galleristi (quest’anno 50 in meno), e per il Motorshow, detestato dai bolognesi perché porta il turismo del sacco a pelo. I soldi si fanno con le fiere dei cosmetici – Bologna è la prima città d’Italia per consumo di profumi -, delle piastrelle (Cersaie) e dell’edilizia (Saie); ma la concorrenza di Milano si fa sentire. Giovedì scorso Pisapia è venuto qui sotto la neve, a promettere al collega Merola alleanza e non guerra. Ma a Milano (e a Torino) sono già finite le storiche banche bolognesi: la Carisbo a Intesa, il Credito Romagnolo a Unicredit.
L’Università con i suoi 83 mila iscritti regge, impoverita però dai tagli e dal meccanismo di cooptazione, che non produce più scuole come quella di economia: Caffè, Andreatta, Sylos Labini, Prodi, Quadrio Curzio. Soprattutto, Bologna ha divorziato dai suoi studenti. Lo si vide nei giorni dell’assassinio di Marco Biagi, quando i neolaureati non interruppero il rito delle corone d’alloro e del pranzo coi parenti. Lo si è visto lunedì scorso, quando i centri sociali hanno contestato la laurea a Napolitano.
Erano gli arrabbiati che occupano l’aula C di Scienze politiche, gli anarchici di Fuori Luogo, i duri del Crash, i dialoganti del teatro Tpo, e gli studenti di Bartleby, che vivono in una vecchia stazione della Croce Rossa ribattezzata come lo scrivano di Melville, quello che diceva «preferirei di no», dove custodiscono la collezione di riviste letterarie del poeta Roberto Roversi. Bartleby è in una via di fruttivendoli pachistani. Inutile chiedere indicazioni a loro: sono a Bologna soltanto a vendere frutta. Dalle vie dei pachistani di solito clochard e punkabbestia girano al largo, perché «quelli menano». I ragazzi di Bartleby raccontano ciò che si legge sugli annunci immobiliari: non si trova una stanza a meno di 400 euro, una camera a meno di 500, un monolocale a meno di 600; mangiare in mensa costa 7 euro, come a Montecitorio; e la città li guarda di malocchio, ricambiata. Da campus urbano i portici di via Zamboni e di piazza Verdi diventano luogo di spaccio, scippo, o anche solo insulti e sguardi aggrottati. Pure i musicisti di strada che tradizionalmente suonano sotto casa di Lucio Dalla, da quando lui reclutò un gruppo per un concerto, non assomigliano ai barboni romantici di «Piazza Grande». Piuttosto, a quelli disperati di «Com’è profondo il mare»: «Siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri/ e non abbiamo da mangiare».

Bologna non era solo la capitale dell’altra Italia, comunista. Rappresentava anche il sogno di una città laboriosa come Milano e calorosa come Napoli. Il crocevia d’Italia: l’Appennino che comincia subito fuori porta Saragozza, il Mediterraneo in fondo alla via Emilia. Il degrado dei rapporti umani si tocca con mano, come altrove, ma qui è più doloroso vedere il motociclista puntare il pedone passato col rosso, notare lo sguardo avido del bottegaio in attesa dietro l’insegna «compro oro».

Questo non significa che Bologna sia diventata una città qualsiasi. Anche nei giorni della grande gelata, i bolognesi li trovavi per strada, anche un po’ più sorridenti del solito, qualcuno con gli sci di fondo, altri a tirarsi palle di neve sugli scalini di San Petronio. Un professore o ricercatore universitario ogni cento abitanti, i grandi collezionisti d’arte come gli Enriquez e i Golinelli, 250 comitati pro o contro qualcosa, una vita culturale e artistica che può tornare tra le più ricche d’Europa, e ogni tanto consegna alla scena nazionale uno Stefano Benni, un Freak Antoni, un Alessandro Bergonzoni. Ci sono famiglie e fabbriche che resistono, ad esempio nel settore del packaging: i Vacchi, i Marchesini, i Seragnoli, che impacchettano sigarette e finanziano il centro per i malati terminali. I Maccaferri esplorano le energie alternative, la Datalogic di Romano Volta ha il business dei codici a barre, un ramo dei Sassoli de’ Bianchi si è inventato la Valsoia. Persino Bergonzoni, il grande affabulatore, ha una fabbrica, dove passa due pomeriggi la settimana: viti e ingranaggi, 50 operai, «dopo qualche anno difficile ora scoppiamo di lavoro». Passati gli azzardi di Consorte, Unipol e le Coop tentano di creare con Premafin il secondo gruppo assicurativo del Paese. E, dopo i restauri di conventi, affreschi, palazzi, Bologna assomiglia sempre più alla definizione che ne diede Pasolini, «la città più bella d’Italia», quella che ha conservato meglio l’impianto medievale, e un poco l’antica arte di vivere, che contempla anche la pietà e la speranza. Quando la moglie del macellaio Raffaellino si ammalò di Parkinson, anche lui si fece ricoverare con un sotterfugio al Giovanni XIII, e passò gli ultimi dieci anni a espiare le proprie colpe e tenerle le mani. E da qualche parte ci devono essere ancora oggi due ragazzi che ascoltano le partite del Bologna immaginando di proiettarle contro un muro bianco, e un giorno diventeranno Dalla e Morandi.

Corriere della Sera.it

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