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La vita dentro, i serpenti e gli amici fuori. Il diario-romanzo Luigi Morsello

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Il Parlamentare.it : Fonte, Luigi Morsello – “La mia vita dentro”, il diario-romanzo della vita professionale – e umana – del direttore di carcere Luigi Morsello, è giunto alla seconda edizione (per i tipi di Infinito Edizioni) e la diffusione del libro ha indotto diverse persone a scrivere all’autore considerazioni, critiche, ricordi. Pubblichiamo una di queste lettere, quella del professor Raffaele Cataldo, con una nota dell’autore, il nostro amico e collaboratore Luigi Morsello.

Caro Gigetto,

sono trascorsi più di cinquant’anni da quella “felice stagione”: si era tra il 1954 e il 1956. Oltre mezzo secolo fa!

Questa dimensione temporale, rapportata alla nostra vita, è impressionante. Mi sobbalza in un’altra sfera di pensieri … di ricordi. Io ero l’amico più “grande”, già universitario, tu il giovinetto che frequentava il liceo classico.

Di quel gruppo solo in tre mi siete rimasti nel cuore, Gino Vocca, Enzo La Monica e tu, il meno “appariscente”; non perché valessi di meno, ma gli altri due facevano di tutto per emulare la mia esuberanza, gareggiando a chi era più scalmanato e chiassoso.

Tu, invece, pur seguendoci sempre, eri discreto e misurato; appena ti era possibile comparivi al nostro fianco, partecipe delle nostre goliardate perché tutto ruotava intorno a quel liceo, a quella scuola: essa era il nostro mondo, la nostra sfida; essa era per noi il “nostro sacro” e il “nostro profano”.

Purtroppo, col tempo la scuola ha perduto tutto il fascino della sua sacralità; … peccato!

Ma quelli erano altri tempi.

Tu ti distinguevi da noi per i tuoi modi: sempre garbato, attento, accondiscendente.

Però con un solo gesto, una sola parola, con una frase mettevi il sale sulle nostre imprese. Come si poteva, per tipi come noi, non affezionarsi a uno come te? Io sentivo che ci volevi bene; sentivo che eri un amico fedele e leale.

Ora, a pensarci bene, a rovistare fra quei ricordi, tanto più nitidi quanto così lontani, mi pare di capire anche il perché e il dove del tuo essere così diverso da noi, nei modi e negli atteggiamenti: tu discreto e noi sfacciati, tu riservato e accorto, noi spavaldi, ecc. ecc. …

Insomma, tu portavi il fardello di una educazione che a noi mancava. Anche perché, nelle nostre famiglie, in quegli anni, spesso nono c’era l’autorità paterna. I nostri padri o erano emigrati, subito dopo la guerra, oppure dalla guerra non erano tornati. Io lo ricordo tuo padre, l’avrò visto un paio di volte. Vestiva spezzato: una giacca verde su pantaloni grigi; camicia, cravatta, cappello a falde strette. Camminava leggero, col viso e lo sguardo proteso, come se mirasse a un punto. Ma dietro quelle lenti si intuiva uno sguardo cui non sfuggiva nulla. Non l’ho mai sentito parlare, ma immagino come ti si porgeva nelle raccomandazioni: quale doveva essere il tuo comportamento, soprattutto in una città che non era la vostra e anche a riguardo del suo lavoro così “delicato”. Quindi tu dovevi essere sempre all’altezza!

Però, noi così scanzonati, eravamo forse la proiezione di un tuo dentro. I nostri modi, il nostro vestire, le nostre ragazze … quelle ragazze di 55 anni fa. Che bella stagione, quella!

L’amico più “grande” – più di mezzo secolo dopo – è diventato l’amico più vecchio che spesso si trova a ripensare il suo tempo, trascorso a seminare e a vedere crescere i suoi arbusti. Ma oggi, di fronte al tuo libro, si sorprende a considerare, con un brivido di orrore, quale scelta difficile il, destino teneva in serbo per te. L’hai descritta perfettamente la tua scelta, sei stato attento e meticoloso. Non poteva essere diversamente. La tua forza era conoscere bene il terreno su cui ti muovevi: dovevi essere sempre all’altezza. Quindi le leggi, i regolamenti, i commenti alle leggi e le comparazioni tra i regolamento dovevano essere il tuo “Pater noster” quotidiano. E per di più tu hai sempre voluto bene a quella gente. A tutti: dai primi dirigenti fino all’ultimo dei derelitti. E non detto che gli ultimi derelitti dovessero essere proprio dei disperati galeotti, avrebbe potuto essere qualche maresciallo ordinario disonesto oppure uno sleale sovrintendente. Anche alle pietre, anche ai muri, anche alle torrette di guardia hai voluto bene, come fossero la tua famiglia. E non importa il carico di lavoro, i sacrifici e le sofferenze patite per questo.

Tu sei stato l’uomo giusto al posto giusto. Peccato che il tempo sia stato quello in cui l’Italia si stava sbracando. E, sotto il piombo di quegli anni, che hai così bene descritto e rapportato alle tensioni che si ebbero nelle carceri, il “sistema Italia” cominciò lentamente ad affondare (come è stato per la scuola e tante altre istituzioni).

Hai scritto pagine di notevole valore: in esse ho trovato frammentini di un’anima (quella che tu chiami una vita) che, composti in un caleidoscopio, formano i diversi aspetti di te e che, comunque giri e rigiri, attraverso altre forme, emergi sempre lo stesso. Sempre attento, sempre preciso nella conoscenza e nella interpretazione delle Leggi e dei Regolamenti: nitido, lineare e corretto nella descrizione delle persone e di ciò esse hanno rappresentato.

Rammaricato ma non ostile, puntiglioso ma non astioso verso chi per leggerezza o negligenza ti ha procurato del male. Accanito servitore delle disposizioni e sempre disponibile per qualsiasi impegno o incarico; e, in fine, sempre coscienzioso, onesto, diligente e propositivo negli impegni che assumevi e portavi a termine. Ma quello che emerge di te, grande solido come una casa, è che hai amato il tuo lavoro; lo hai amato sempre e comunque il tuo lavoro; e questo forse ti ha dato la forza e l’estro di raccontarlo.

Vi sono pagine in cui descrivi i luoghi marinari o angoli di borghi storici con la leggiadria di u n paesaggista: la penna diventa un pennello; e altre addirittura il grigio di un carcere – luogo di pene e di tormenti – man mano che ne parli e ne racconti dei tuoi lavori, acquista colore risplende. Non c’è una grande sofferenza nelle carceri da te descritte; non c’è disperazione, come siamo usi a pensare; non sono quelle “fosse di serpenti” a cui eravamo abituati da certa letteratura scritta e cinematografica.

Credo nell’utilità futura di questo tuo lavoro quando si porrà a rendere solo pedagogico il fine della detenzione.

Intanto sono convinto che il primo, più autentico ed efficace risultato, questo libro l’abbia avuto proprio con te. Scrivendolo hai pian piano e gradatamente aperto il tuo animo; hai fatto uscire le parole e, con esse, sono defluite, prima lentamente, con passi incerti e pesanti, poi sempre più spedite e svelte, tutte le tue ansie fino ad esorcizzare completamente quel veleno in cui la tua vita stava annegando.

Ciao e a presto, con tanto affetto

Nuccio

NOTA DELL’AUTORE

Questa lettera mi è stata spedita dal prof. Raffaele Cataldo, per gli amici “Nuccio”, di alcuni anni meno giovane di me.

È una lettera molto bella, che avrebbe potuto essere la migliore recensione del mio libro.

Lo scritto inizia con la rievocazione (stavo per scrivere la evocazione) degli anni della nostra gioventù, venata di nostalgia che io condivido con lui, di una nostalgia dolce fatta di ricordi ancora freschi oggi, dopo oltre 50anni e tante vicissitudini reciproche, antiche e recenti.

Dopo quegli anni così intensi, del quale il ricordo è struggente oggi come ieri e come sarà anche in futuro, quel futuro che ci rimane, ogni anno ci incontravamo in quel di Eboli, laddove io e la mia famiglia tornavamo per i bagni di mare’, pur essendo il mare a mezz’ora di auto, l’incontro con questo grande e caro amico era come un rituale, sempre fresco, un ‘evergreen’ si dice oggi. Egli esclamava: “… è arrivato Gigetto, segno che è arrivata l’estate …”.

Nella seconda aperte della lettera egli dà conto del libro e dimostra d averlo letto, capito in tutte le sue sfumature ed apprezzato.

Di ciò gli sarò sempre grato.

Luigi Morsello

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