Il Parlamentare.it – Il senatore Marcello Dell’Utri avrebbe svolto una attività di «mediazione» e si sarebbe posto quindi come «specifico canale di collegamento» tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Palermo nelle 641 pagine, depositate venerdì e in possesso dell’Ansa, della sentenza con la quale il senatore del Pdl Dell’Utri è stato condannato il 29 giugno scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il parlamentare era stato condannato per i fatti avvenuti fino al 1992 e assolto per quelli successivi. Il collegio presieduto da Claudio Dall’Acqua, a latere Sergio La Commare e il relatore Salvatore Barresi, gli hanno ridotto la pena dai nove anni subiti in primo grado a sette anni.
DELL’UTRI – Premette che non ha ancora letto le motivazioni però dalle prime anticipazioni che stanno emergendo dalle agenzie di stampa, Marcello dell’Utri si limita a dire: «I giudici hanno ricicciato le stesse cose della sentenza di primo grado. Sono sostanzialmente le stesse accuse del primo processo». «È una materia trita e ritrita – dice Dell’Utri all’Adnkronos – non c’è nulla di nuovo sono tutte cose che abbiamo già visto». Però, il senatore del Pdl continua a dirsi «fiducioso» e lo sarà «fino all’ultimo momento, altrimenti che faccio, mi uccido?». Dice anche di non sentirsi «preoccupato». «Non vedo come mi possono condannare sul nulla», ecco perché crede molto nel giudizio dei giudici della Corte di Cassazione. «Saranno i miei avvocati cassazionisti ad occuparsi adesso del caso, prepareranno una difesa adeguata per rispondere a tutte le accuse e alle motivazioni della sentenza di secondo grado». Dell’Utri ribadisce poi di non volere aggiungere altro perché «non ho ancora letto le motivazioni. Come faccio a parlare di una cosa che non conosco? So che hanno depositato le motivazioni ma non so altro».
A me questa sentenza d’appello sembra molto pilotata, tanto è vero che né il collaboratore di giustizia Gaspare Spaturra né il teste Massimo Ciancimino, figlio del noto mafioso Vito, già sindaco di Palermo e defunto nel 2002, non sono stati pretestuosamente ammessi in giudizio. Addirittura la corte ha giudicato inattendibile Massimo Ciancimino, non sentito in giudizio, sulla base di una informativa prodotta in altro giudizio, quindi ‘de relato’, ipotesi inammissibile nell’attuale processo penale di rito accusatorio.
Parole sante. Concordo in pieno!