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giovedì, Novembre 21, 2024

Le piaceva ballare

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di Franca Benincà

Le piaceva tanto ballare non per esibizionismo, quello che trasforma tante bambine in vezzose statuette; V. tra l’altro non sapeva affatto ballare, nessuno l’aveva mai portata in una di quelle scuole di ballo per bambine-preadolescenti  che tanto saranno di ppmoda negli anni ‘70. Lei (e men che meno suo fratello) non era mai stata incoraggiata ad avere interesse per il proprio corpo. Eppure il suo interesse-piacere per il ballo era di tipo carnale. Una  “bambina” di nemmeno 13 anni, graziosa ma un po’ scialba nella pettinatura e nei vestiti, aveva una vera passione per l’odore dei ragazzi. Era del tutto ignara di faccende sessuali.  Né si preoccupava granché di questa sua ignoranza, che pensava non riguardarla affatto. “Ci penserò al momento” era come se dicesse. Ma non c’era ombra di verbalizzazione né di pensiero strutturato in queste sue considerazioni: era  ammassato alla rinfusa nella sua testa, come quando si imbucano da qualche parte vecchi oggetti in attesa di trovargli una sistemazione.

Dunque, le piaceva molto ballare, ma non era stato sempre così: quel piacere aveva una precisa data di nascita, cioè una “festina” come si chiamavano allora, organizzata dal fratello, maggiore di 3 anni , verso cui lei nutriva un misto di amore e invidia. Bravo a scuola anche senza studiare, aveva grande facilità a procurarsi amici e ad intrattenerli, cosa che invece a V. riusciva assai poco e a fatica. Avrebbe tanto voluto avere la sua facilità di trovarsi bene in mezzo agli altri e che si vedesse , che riuscisse a fare la sua bella figura, perché non basta essere a proprio agio, bisogna anche mostrarlo. E lei né lo era, né sapeva fingere di esserlo. Avrebbe dato chissà quanto per avere un marchingegno speciale, una sorta di maschera che le permettesse di apparire come avrebbe voluto essere e non era. Troppo spaventata dagli altri, facile al rossore (il contrario della maschera!) incapace quasi sempre di trovare le parole da dire quando si doveva dirle. Gli altri sapevano sempre tutto, che cosa dire e che cosa fare.

Eppure, anche con l’amato fratello aveva a volte rapporti difficili – come spesso succede tra fratelli, ma lei ci rimaneva male, ne restava mortificata. Succedeva, per esempio, che, di malumore, le desse qualche rispostaccia, spesso nemmeno rivolta a lei. E per consolarsi doveva concentrarsi a ricordare quanto la faceva ridere e giocare quando era piccolina, sembrava divertirsi molto anche lui. Ma per esempio il nome: lei veniva chiamata Vincy, orribile, diminutivo di Vincenza, ritenuto orribile anche da sua madre che infatti le aveva concesso il diminutivo. Perché chiamarla così? Pare che fosse il nome di una sua vecchia parente che ebbe cura della mamma quando, ancora piccola, rimase senza genitori. Una storia straziante sghignazzava Vincy con le amiche, per togliere quel sapore di melassa che la vicenda portava con sé. Ma intanto il fratello si chiamava Federico, un nome normale, a volte  chiamato Fedi dagli amici. Per brevità.

Ma torniamo alla festina, che fin dall’inizio si rivelò deludente. Senza la minima aspettativa di un successo personale (e come faceva a procurarselo? Col tristo abitino in principe di Galles, che  era stata una scelta obbligata visto che altri  non ne aveva?), quando il primo ragazzo venne gentilmente a chiederle di ballare, lei avvicinò quasi con indifferenza il proprio corpo al suo e cominciò a muovere i piedi.

In questo o poco più consisteva il ballo tra non professionisti o semplici appassionati, per lo più donne: schiena ben dritta, braccio destro o sinistro ripiegato altezza delle spalle del partner, quasi a voler mantenere le distanze, e mano dell’uomo che teneva accartocciata dentro la sua quella della donna.  Ma i ragazzi non accennavano nemmeno a movimenti articolati: si limitavano per lo più ad appoggiare il peso del corpo prima sull’una, poi sull’altra gamba: in altre parole si cimentavano in quello che simpaticamente veniva chiamato “ el balo de l’orso”.

Ballerini più esperti…

La generazione dei loro genitori, quelli che il ballo approssimativamente lo conoscevano, o almeno si sforzavano di copiare le ballerine del cinema o dell’avanspettacolo  (e nelle cui movenze c’era meno erotismo che gusto per i movimenti sinuosi del corpo,  per il gioco sapiente dei piedi – nei più bravi –  movimenti esibiti con piacere di fronte agli astanti) i loro genitori, dicevo, mettevano anche questo “ballare per finta”  nel mucchio dei comportamenti incomprensibili della gioventù dell’epoca: che gusto c’era a muovere i piedi come dei ciabattoni? Che cosa c’era da stringere tanto fino a soffocare? Non era più stimolante ed elegante provare a creare delle figure che richiamavano alla mente (una per tutte) Carmen Miranda? Meta irraggiungibile, si capisce, ma era importante lo  spunto, il richiamo alla mente. E questo veniva affrontato dai ballerini più preparati: una volta in posizione, quando cominciava la musica: via, via con il movimento dei piedi: dai passi ampi (se c’era spazio) del valzer inglese o hesitation, ai rapidi passetti di uno pseudo-simil-fox-trot. O magari una rumba.

Ma i ragazzi, come ho detto, per lo più non volevano saperne di ballare per davvero: non gliene interessava proprio un bel niente: qualche coraggioso si cimentava in quella specie di esercizio ginnico spacca-rotule che era il twist – che tra l’altro si balla staccati, o uno di fronte all’altro. Ma, nonostante da “oltreoceano“, come diceva chi parlava elegante, arrivassero i balli più movimentati, in primis il rock’n’roll, che si era già conquistato una bella fetta di popolarità, la maggior  parte preferiva il ballo della mattonella. Era perfetto, si stava stretti stretti trasgredendo subito alle regole imposte dalla madre all’inizio della festa;  le due facce accostate fino a toccarsi, qualche timido bacio a fior di pelle. Ma questo per chi si conosceva un po’ o era già grandicello ; negli altri casi, una via di mezzo.

E questo era il ballo di Vincenza, detta Vincy

Lasciatasi dunque prendere dal primo giovanetto, andava verso di lui né con slancio né con riluttanza: una via di mezzo, consapevole di essere stata scelta per dovere di ospitalità: ma sì, un giro facciamolo fare anche alla bambina. Qualche frasetta o domanda di circostanza, l’età,  la scuola e all’improvviso quella strana atmosfera fatta di odori e sensazioni tattili: un po’ di barba qualche sedicenne ce l’aveva  e si faceva leggermente sentire nel dopobarba, ma altri erano ancora glabri e l’odore del loro collo era una novità, un misto di pelle, capelli, stoffa di lana che tratteneva di più gli odori,.. E insomma un tipico odore maschile, somigliante a nessun altro; mai più a quello delle ragazzine acqua e sapone, che odoravano ancora di colla per bambole; né a quello di qualche timida fragranza tipo J.M.Farina, o il calycanthus Adam, o il 4711 , tutti troppo dolci. No,  i maschi, tranne quelli col dopobarba, sembravano fieri del loro aspetto (ed odore) naturale. A  Vincy piaceva, e lo sapeva ritrovare anche negli altri ragazzi che, non certo a frotte, la invitavano a ballare; era, come dire, paga di questa scoperta che non confidò a nessuno.

La festina finì. Non fu un granché per lei, ma tutto sommato neanche per gli altri; troppo impacciati, troppo “non sapere come comportarsi”. Aveva scoperto il “ballo odoroso”, ma per lo più aveva fatto tappezzeria, che in linguaggio moderno si diceva “cambiare i dischi”, e aveva subito qualche velenosa frasetta da parte delle signorine più grandicelle: “ma non avevi un vestitino più elegante?”  “hai scelto una scuola che più brutta non si può”. E lei non rispondeva : che cosa doveva ri

Anticipiamo che dopo  questa “festa da ballo” ne visse altre, e non tutte così mortificanti, tutt’altro. Col passare degli anni l’odore del maschio, sempre presente ed attraente, venne gradatamente sostituito dall’odore dell’alcool che, specialmente nelle festine di capodanno, la faceva da padrone. In queste feste succedeva il contrario che nella prima: intanto i partecipanti erano più avanti in età, c’era perfino qualche ventenne o addirittura venticinquenne; poi tutti erano trascinati nel ballo, con le buone o le cattive. Un crescendo di allegria fino alla mezzanotte.

Altre feste …

Da una certa età alle festine poteva capitare che ci si innamorasse anche. Non certo dei compagni di classe, quelli stessi che si incrociavano alla mattina per farsi copiare i compiti o che chiedevano, per pietà, di suggerire se interrogati. Costoro non avevano nessun fascino, men che meno odoravano di buono: odoravano di scuola e basta. Per fortuna invece alle feste c’era sempre qualcuno di estraneo opportunamente invitato per sparigliare e che, se scelto bene, sparigliava che era un piacere. In questo tipo di feste perfino Vincenzina otteneva dei successi, supportata da qualche abitino simil-nuovo e dal suo grazioso musetto. Difficoltà a parlare, a tener su una conversazione, ne aveva ancora, ma ad una festa tra adolescenti non erano qualità indispensabili, tutt’altro. D’altronde la difficoltà di conversare rappresentò sempre una fatica insormontabile per lei. Erano necessarie alcune capacità o doti che non aveva, o che non sapeva di avere: saper raccontare qualcosa di divertente (e a chi veniva in mente in quei momenti?), evitare di dire stupidaggini qualsiasi tanto per dire qualcosa; parlare a voce alta per evitare di venire, poco per volta, ignorati.. D’altra parte, non tutti apprezzavano incondizionatamente la chiacchiera; ecco lo scambio tra suo fratello  e un amico udito di sfuggita: “Ma tua sorella non parla mai?” “Mai”;  “Ah, ma allora deve avere una ricca vita interiore”; frase detta, conoscendo il tipo, con la massima serietà. Aiutava anche essere un po’ civettuoli ma non troppo, sapere costruire qualche sguardo seduttivo; e se  poi qualcuno se la sapeva cavare con due corde di chitarra e un po’ di voce miagolante, quello aveva buone probabilità di vincere il torneo.

Alle festine, quindi, capitava di prendersi una cotta, di cominciare un flirt, o un filarino. Molto più spesso, però, l’amoretto durava l’éspace d’un matin. Lasciava, è vero, uno struggimento, una voglia di ritrovarsi di nuovo dove ci si era divertiti tanto (e magari ci si era anche sentiti felici). A seconda di come era andata la festa, si rimpiangeva di essersi sentiti carini, ammirati, e che tutto ciò sparisse col ritorno alla vita normale.

Nei giorni seguenti c’era lo spazio per i commenti, benevoli o malevoli, del ballo passato: le critiche spesso riguardavano quella che faceva gli occhi dolci all’altro solo per dispetto, quant’era volgare (ma intendeva dire sexy)  il vestito di quell’altra cretina…ma più di tutte erano odiate le regole fissate dai padroni di casa riguardo  all’alcol, che era per lo più proibito. Ma come! Una festa in cui i ragazzi vogliono mostrarsi grandi agli occhi delle ragazze! Che figura! L’aranciata con le bollicine! Ma non c’era niente da fare, i liquori erano sottochiave o non c’erano affatto. L’altra restrizione invece  (molto più semplice da aggirare) riguardava le luci, che ad un certo punto, in assenza della saggia padrona di casa, venivano spente o abbassate , per dare via libera a baci osé , toccamenti e gridolini vari. Certo, chi per l’età, come la nostra Vincenzina, era ancora poco adatto a questo genere di sollazzi, si sentiva un po’ tagliato fuori e imbarazzato.

Insomma, tolti i primissimi anni di frequentazione, alle festine si andava per lo più per pomiciare, con buona pace di un mio amico che, parlando di quegli anni, recentemente mi fece questa vergognosa confessione.

Primi rudimenti ed informazioni sessuali

Nei primi anni sessanta la situazione relativa all”educazione” sessuale era a dir poco stagnante. Non succedeva niente, si litigava anche sul termine. Si voleva usare “educazione”, più moderno e onnicomprensivo, ma più in là di una misera informazione su parti anatomiche e loro funzione (appena accennata) non si andava. Bè, in moltissimi casi mancava anche questo. Non c’era ancora alcuna forma istituzionalizzata di istruzione scolastica in materia, e il tutto era affidato alla famiglia. Ancora più spaventata dei figli. E mentre i figli maschi avevano mille canali di informazioni “fai-da-te” (dagli amici più grandi o addirittura all’oratorio, magari durante la confessione, dove tanti erano i preti smaniosi di doversi dedicare all’ingrato compito di informare i ragazzini.), per le ragazze era diverso. Nel confessionale raramente veniva fuori l’argomento, e se succedeva venivano usati termini astrusi e poco comuni. Anche le ragazze parlavano tra di loro, certo, ma spesso partendo da posizioni distorte e quindi erano facili agli errori. Anche clamorosi, come chi credeva che i bambini uscissero dall’ombelico della mamma.  E questo succedeva soprattutto in città dove ancor oggi qualche bambino crede che i polli abbiano 4 zampe .

Abbiamo già detto all’inizio che Vincy non era nemmeno tanto preoccupata di non saper nulla di sesso.  Tutto ciò, ovviamente, in apparenza. Azzardiamo che, forse, fin che è piccola è inconsapevolmente sollevata, al pensiero che la cosa (la differenza tra maschio e femmina, le trasformazioni fisiche della pubertà) ancora non la riguarda; ma, una volta messa sulla strada della conoscenza, evidentemente, non poteva più fare la gnorri in questioni collaterali. In casa si parlava per cenni, si facevano allusioni: “Anche la piccola adesso è diventata una signorina” venne annunciato un giorno. Tutto qua.

Oppure certe parole uscivano da sole: chi  ricorda il “fungo cinese“? Una immonda poltiglia marron che doveva essere filtrata e bevuta diluita per sedare i “Disturbi periodici femminili“; e giù una risata sguaiata all’indirizzo della “piccola” che sarà anche diventata una signorina, ma non sa che cosa voglia dire questa espressione. “Cara!” le disse la nonna, intenerita dalla sua ingenuità, anche perché era lei stessa che leggeva per tutti l’oscuro biglietto illustrativo. Così capiva che si parlava di lei e questo la imbarazzava perché non sapeva che cosa stessero dicendo.

Per quanto riguarda l’aspetto più propriamente tecnico dell’argomento, cioè dove stanno i bimbi prima di nascere e soprattutto da dove escono, le bastarono delle osservazioni ripetute varie volte (della nostra vicina, per esempio, che ebbe 7 figli) per fare 2+2. “Senti, disse ad una amichetta in visita “ho visto io tante volte la mamma del piccolino con una gran panciona: c’era il bambino lì dentro! Perché quando poi è venuto fuori e l’abbiamo sentito piangere, la pancia si era tutta sgonfiata!” “Sì, ma come ha fatto a venir fuori?” “Non lo so, credo che gli facciano un taglio nella pancia. “ come il lupo di Cappuccetto Rosso?” Risate.

Discussioni, ipotesi,  scherzi; eppure più in là non si andava. L’argomento era difficile, soprattutto per le femmine, educate alla riservatezza. Una volta, trovatasi insieme in stanza da bagno con un’altra amica più grande,  Vincenzina sbirciò sotto le sue gonne e fu colpita e turbata dalla presenza della peluria  e dal colore scuro della pelle. Questa parte oscura anche in senso metaforico forse l’aveva vista in sua madre durante l’infanzia.  Ma a quel tempo ne era ancora lontana, erano eventi di là a venire, poteva stare tranquilla. Ora aveva invece paura che il fenomeno le si stesse rapidamente avvicinando, che la distanza tra  l’età della sua amica e la propria si stesse accorciando. Si sentiva costretta a diventare donna. E presto.

E come donna avrebbe dovuto spiegarsi quella strana – e piacevole – sensazione che la prendeva ogni tanto, sembrava indipendentemente dalla sua volontà; forse un brivido (ma non era un brivido) o forse un formicolìo (ma non era nemmeno un formicolio) che lei, qualunque cosa fosse, sentiva di dover tenere per sé. E’ che ogni tanto le venivano strani pensieri: e se era una malattia? Magari mortale? Un cancro? Ma lei non ci pensava neanche a chiedere consiglio ad un adulto; e se    era una cosa grave, pazienza. Così, di primo pomeriggio, quando tutti in casa dormivano, pervasa della curiosità riguardo al proprio corpo, si appartava in qualche posto riservato e restava sola per un po’ di tempo. Ed è lì che la lasceremo, in compagnia dei suoi pensieri e della sua intimità.

Ma una piccola bambina, anche se ormai diventata una signorina, non dovrebbe mai essere lasciata sola per la strada; non parlo, ovviamente, di fisicamente sola, ma dico che dovrebbero esserci prima  le spiegazioni, la preparazione ai futuri eventi: le bambine altrimenti si spaventano e non sanno a chi rivolgersi. Nessuno pare pronto ad aiutarle. Così, in un pomeriggio di primavera, in pieno giorno (però erano le 2) un signore sembrava seduto nella sua auto ad aspettarla. Infatti quando lei passò le chiese una strada. Non si accorse lei che detto signore aveva la patta dei pantaloni aperta e i genitali tenuti in mano; così lei rispose. Lui insistette: “Lei ha da fare o può accompagnarmi?” Da notare il “Lei”; aveva e dimostrava 13 anni. A quel punto Vincy capì più che altro per intuito: non aveva mai visto i genitali di un adulto. E se ne andò senza aggiungere parola. Ma che subbuglio! Sentì un motore accendersi dietro di lei. Fu presa dal terrore che quello la seguisse, accelerò il passo senza mettersi a correre. Per fortuna dopo pochi metri era a casa. Ma continuò, continuò su per le scale ad invocare tutte le persone buone (maschi) che conosceva: Sergio, Giovanni, Antonio, affinché la salvassero. Da che cosa? Ormai era a casa, al sicuro. Voleva essere salvata dalla vita che era tanto crudele e le faceva tanta paura.

Amori in celluloide

Prima di entrare definitivamente nella realtà – nella vita, con le sue meschinità, le sue miserie, le inquietudini – prima di essere risucchiate nel loro destino di moglie e madre (quello che aspettava ancora  parecchie di loro) le ragazzine (ben poco i maschi) si concedevano, come dire, una vacanza nell’irreale,  nel sogno, nella bellezza , nell’Amore…e si innamoravano di un “bello del cinema”. Non è da credersi (o almeno non in tutti i casi) che fossero amori di serie B, per riderci sopra e per scherzarci, tutt’altro, erano sentimenti veri. Esistono d’altronde anche oggi, pur essendo cambiati i modelli di riferimento e le modalità espressive del fenomeno. Ma negli anni 50/60 c’era un vero processo di “identificazione amorosa“. Per Vincy tutto cominciò con James Dean, che peraltro più che oggetto di desiderio era oggetto di tenerezza, forse perché il boom della notorietà lo ebbe dopo morto. Bisognava trovarne un altro, vivo, forte ma giovane, possibilmente americano, biondo, eroe di guerra (nei film): Tab Hunter! Praticamente sconosciuto (e pertanto più personale) lo si trovava soltanto nelle cartoline che  vendevano dal tabaccaio vicino alla scuola. Lei e le sue amiche ne facevano la raccolta, ma altre fonti di approvvigionamento erano le riviste femminili: ritagliavano le foto più interessanti (anche di altri attori) e le incollavano nelle pagine di vecchie agende.

Vincy era pazzamente innamorata di Tab: decisamente il suo primo grande amore. E come tutti i grandi amori era segreto: ne era informata solo la sua compagna di banco.  Si diceva pronta a tutto per lui: per dirne una aveva progettato di iscriversi, finite le medie, ad un corso triennale per segretaria, in modo da sbrigarsi a ottenere un diploma qualsiasi ( bisognava anche accontentare papà) e poi, a 17 anni: via! In volo per l’America! A che cosa fare e come mantenersi, era un mistero che essa volle tenere per sé. Qualche santo avrebbe provveduto. Intanto provava le prime pene d’amore: quando sfogliava l’agenda con le foto un brivido le preannunciava l’arrivo di una pagina incantata.  Nei confronti di Natalie Wood (i giornaletti la presentavano come “la sua ragazza”) non era affatto gelosa, condivideva con lei un amore immenso, avrebbe voluto anzi diventarle amica. Ma la sua sofferenza derivava dal fatto che, al di là del viaggio programmato, lo sapeva bene che si trattava di un amore impossibile, di quelli che fanno star male: l’avvicinarsi della pagina dell’agenda con incollata la foto di Tab non rappresentava per lei la pienezza del godimento del suo amore, bensì la mancanza, l’eterna mancanza del suo bene.

Non andò in America perché, come vedremo, nel frattempo le era passata. Ma in parte mantenne l’impegno: si iscrisse alla scuola di segretaria, che non le piaceva per niente, tant’è vero che una volta completata “stracciò” il diploma e si iscrisse al ginnasio.

La nuova scuola

Però,  rimessi i piedi a terra, si ritrovò  smarrita. La scuola, scelta per motivi sbagliati o comunque irreali, si accorse ben presto che non le piaceva: l’avrebbe portata verso un lavoro di segretaria. Squallido.  Almeno squallido nei confronti della scuola del fratello (con cui il confronto era sempre aperto) che poteva vantarsi di essere un futuro studioso, roba seria, mica ragazzate. “Io mi vergogno a dire che scuola fai” diceva nei momenti di perfidia alla sorella, ”piuttosto dico che vai a battere!” “Federico!!” (la mamma) “Sempre se sai che cosa vuol dire” concludeva imperterrito. La prendeva in giro dal giorno in cui aveva scoperto che non sapeva che cosa voleva dire “mignotta”, Quelli erano momenti di tensione e, per Vincy, di sofferenza: offesa e mortificata spesso le sembrava di camminare in un terreno minato. Si sbagliava:  le osservazioni di Federico erano bonarie e voleva solo fare spirito. A volte interveniva la madre: “Lasciala stare, non potresti farti i fatti tuoi?” “Ma questi sono fatti miei” soggiungeva Fedi, però abbassando il tono della voce come chi ha deciso di chiudere lì la questione. Ma intanto la ferita restava ed era proprio il suo amato fratello che gliela aveva inflitta.

Ma infine, adesso che poteva fare? Dire a suo padre che aveva cambiato idea? Non ne aveva il coraggio. Così proseguì, si sarebbe visto in seguito. Intanto si era ripromessa di trarre da quella scuola tutti i vantaggi (non poi molti) che essa offriva: per esempio l’orario di frequenza era lunghetto (con tanti pomeriggi); in cambio però raramente davano compiti per casa; beh, questo era un vantaggio. I compagni erano simpatici e senza puzza sotto il naso; la scuola organizzava durante le vacanze estive un viaggio nel paese di cui si studiava la lingua. Così un anno andò a Parigi, l’anno seguente a Londra… non male.

E il grande amore?

Già, intanto l’amore era passato. Ma come avvenne? Quel grande amore che la faceva  star più male che bene, che si prendeva una larga fetta della sua affettività e della sua passione; come successe che ad un certo punto sparì? Probabilmente la ragazza fece un serio e proficuo esame di realtà: adesso era cresciuta ed era in grado di farlo.

Si accorse che un qualsiasi “Giovanni” era più reale, più presente di tutti i Tab del mondo, più in grado di soddisfare i suoi desideri. E la vita in America, con le sue praterie e i suoi eroi, forse non era nemmeno più bella della vita che lei conosceva, rassicurante,  dove c’erano le sue cose, le persone che amava. Chi lo sa che tipo era Tab Hunter? Chi lo sa se l’avrebbe voluta? Del resto, lei stessa annotava in un quadernetto-diario segretissimo, (sbucato fuori e da lei stessa divulgato in età  adulta,) mentre raccontava di aver incontrato dei simpatici ragazzi: “Mi è un po’ passata per T. H. Certo che è carino, ma è una cosa troppo poco reale e lontana.” Ecco. Liquidato in due parole.

Resta un interrogativo: che tipo di amore era quello per Tab? era anche fisico? E’ probabile che venisse escluso il desiderio per il suo corpo e i che suoi sogni di “lussuria” si concentrassero in abbracci e casti baci. D’altronde la sua conoscenza delle “cose del sesso” era ben poco aumentata rispetto a quando aveva 12 anni.

L’amore fastidioso

Una delle cose dell’amore che scoprì intorno ai 15 anni   (una novità per lei che non ne aveva fatta ancora esperienza) fu il fatto che a volte l’amore, il corteggiamento può diventare sgradito e  perfino soffocante. Nella sua ingenuità pensava che sarebbe stato sempre e comunque desiderabile avere qualcuno che ti corteggia, che ti fa dei complimenti: chi poteva rifiutarli? Parrebbe non esserci limiti alle lusinghe, al desiderio di piacere a qualcuno. E invece succedeva pure questo.

In una delle solite festine, un giorno conobbe un ragazzo, Gabriele,  moderatamente simpatico, un po’ imbronciato ma carino, che le stava sempre attorno senza essere troppo invadente. La corteggiava affettuosamente e non le causò nessun problema. Era venuto col fratello, di un paio di anni più grande.

L’indomani sulle 6, alla fine della scuola, chi si trova davanti ad aspettarla: forse Gabriele con cui bene o male aveva stretto amicizia? Macché, era il fratello maggiore, col quale ben poco aveva avuto a che fare. Si indispettì moltissimo:

– Che ci fai qua? Aspetti qualcuno?

– Sì, te. Posso accompagnarti a casa?

–  Nemmeno per sogno: Perché non me l’hai chiesto ieri?

–  Sai, ieri c’era mio fratello che ti faceva la corte, non volevo rubargli la scena. So che gli piaci molto e piaci molto anche a me.

–  Beh, comunque stasera no. Non credo neanche le altre sere [decisamente non le piaceva] ma prova pure.

Non si sa se il meschino ebbe il coraggio di presentarsi una seconda volta.

Aveva un fastidio connaturato per i piccoli riti ormai codificati: detestava dire (e fare) la frase “uscire con qualcuno”, e, anche se sembra che non c’entri, per molti lunghi e scomodi anni si rifiutò di portare la borsa, perfino le modernissime (allora) tracolle. Teneva sempre in mano un borsellino di stoffa scozzese con dentro pochi spiccioli e un fazzoletto. Forse era il concetto di “femminilità” che non riusciva ad accettare; femminilità come passività, subire le proposte del maschio e dovergliene pure essere grata!

Questi però non erano preavvisi di femminismo ante litteram, tutt’altro. Ancora una volta non aveva le idee chiare. Avrebbe combattuto, se necessario (come Voltaire!), a favore delle donne discriminate, ma conservando in sé il segreto di un sottile disprezzo per loro nel momento in cui si contentavano di queste vittorie “di facciata”.  Ma poi c’è da dire che aveva ereditato in blocco la spiccata misoginia della nonna. Lei non lo avrebbe mai ammesso, (anche perché forse non del tutto consapevole) ma riteneva che le donne fossero esseri  leggermente inferiori, se non altro in senso statistico. Ecco il rifiuto della borsa: non voleva confondersi con quelle là.

Un’altra volta dovette manifestare il suo fastidio per proposte non richieste; era al mare, dove conobbe un bel ragazzo sui 20 anni (lei 15) che se ne innamorò subito e glielo fece capire, anche se doveva partire l’indomani. Ma le scrisse una lettera. Era innamorato di lei, così carina e dolce, avrebbe voluto tenerla sempre per mano: e le prospettò una vita futura, con bar da gestire, matrimonio e figli. Qui si infuriò. Come poteva un perfetto sconosciuto proporle una vita in un Bar Sport? E se l’aveva percepita “carina e dolce” dovette ben presto ricredersi. Gli diede una quasi-rispostaccia e non ne volle più sapere.

L’amore vero, finalmente?

In questo stesso periodo, in quegli stessi mesi in cui lei conduceva, a modo suo, con i suoi ritmi, le prime mini battaglie per l’autoaffermazione, il destino le preparava la sua prima esperienza,  questa volta sia reale che coinvolgente.

Avvenne che, tramite il solito Federico che era l’unico elemento della famiglia capace di inventiva e di originalità (e anche di salvare certe situazioni, come  vedremo in seguito) si venne a sapere dell’esistenza di una scuola di mimo e recitazione per giovani anche del tutto inesperti. Lui intendeva iscriversi (anche se aveva la maturità: riusciva sempre a fare più cose insieme), ed a quel punto, bisogna convenirne, con generosità volle incoraggiare la sorella ad iscriversi offrendosi, nelle serate buie invernali, di darle uno strappo in bici. Non poté però trattenersi dall’aggiungere: “tanto per quella scuola non occorre che studi!” Insomma questi erano dettagli, ma indispensabili per partire da una base organizzativa decente.

Le lezioni incominciarono; come si dice: il fascino del palcoscenico! Era veramente un’esperienza straordinaria,  c’erano in tutto una quindicina di ragazzi e ragazze, piuttosto giovani, Imbarazzante all’inizio, quando il “maestro” li invitò a preparare un pezzo a loro scelta in pochi giorni. Difficile lì su due piedi. Dal mucchio dei ragazzi allora si alzò un tipo che pareva più grande degli altri. Si  avvicinò  a Vincy e le chiese così senza tanti preamboli se sarebbe stata d’accordo di recitare una scenetta scritta da lui stesso: era un testo drammatico, ma lui la chiamava “farsa”, forse per fare spirito. Lei, un po’ titubante, rispose che andava bene, si poteva provare, anche se lei non aveva nessuna esperienza. “Ma neanch’io!” rispose lui, “siamo qui per imparare. “Piuttosto, bisognerà vedersi qualche pomeriggio per provarla ed impararla a memoria.”  Questo particolare la disturbava un po’: un estraneo di punto in bianco in casa! Che imbarazzo! Bisognava saper cosa dire, non trovarsi mai senza argomenti. Per fortuna c’era la commedia di cui parlare, e comunque il tutto sarebbe durato solo poche settimane. Alla fine intervenne Federico che, con l’autorevolezza del fratello maggiore, la “spinse definitivamente verso il sì,” per così dire.

A parte l’imbarazzo, sentimento già di per sé più negativo che positivo,  il progetto non la entusiasmò poi un granché: il ragazzo, un ventenne di nome Michele, non lo trovava particolarmente simpatico né bello, aveva una bocca piccola che gli faceva fare più che altro dei mezzi sorrisi: i denti leggermente scuri per via del fumo, occhi piccoli e non troppo espressivi. Aveva sì quello che si chiamava una bella figura: alto e magro. Ma insomma non ne rimase folgorata.

Cominciarono le visite e le prove. Si lavorava seriamente, avevano una scadenza e bisognava darsi da fare. Durante questo periodo non successe niente tra di loro, erano forse occupati a studiare la parte. Oppure non era ancora riuscito a piacerle fisicamente: tanto pesavano le espressioni del volto. Ma la sera della recita di prova alla presenza del “maestro” e degli altri allievi, qualcosa successe: si erano sentiti vicini, complici. E lui, per suggellare questa specie di unione, alla fine le prese la mano, e sempre  per mano, si volsero verso il pubblico, facendo il consueto gesto dell’inchino.

Questo inchino le fece capire quanto forte era il sentimento che, da un  momento all’altro, si era venuto a creare e poi a rafforzare tra di loro. Si era innamorata. Non contavano più niente il sorriso striminzito, gli occhi piccoli e tutti i suoi difetti: lui le faceva capire di essere a sua volta innamorato di lei, fatto che immediatamente trasformava un amore in un legame.

La nascita ed il prosieguo del flirt erano stati  rinforzati, anche a loro insaputa, da due fattori: il vedersi quasi tutti i giorni, tra lezioni e prove; il contenuto del testo. Si trattava di un condannato a morte per uxoricidio che ha una visione della moglie poco prima dell’esecuzione: la moglie che amava tanto e che lui stesso aveva ucciso. C’erano nel testo parole e gesti d’amore che non potevano non  toccare i sentimenti di una quindicenne.

Sicché l’affaire continuò anche dopo la recita, che ebbe un buon successo presso il pubblico del teatrino, piuttosto ampio e con comode poltroncine rosse. In  particolare, la notte del “Saggio” finale, una notte tiepida di maggio, rimase nel ricordo di tutti come un evento magico. Il pubblico generoso (anche perché in gran parte composto da parenti e addetti ai lavori) la recitazione rilassata e gratificante: resta solo da aggiungere che, in un momento in cui entrambi non erano “di turno”, lui la afferrò da dietro le quinte e la portò al buio, dove la tenne stretta a sé: un intermezzo con un atto d’amore, che la rese pienamente felice.

A ben vedere erano una strana coppia.  Lui era un tipo dall’aria vissuta: chissà quante ragazze – e donne – aveva avuto. Lei una verginella sprovveduta – lui però in privato la chiamava “la mia ninfetta”. Lui faceva il dongiovanni, ma non in modo offensivo per la piccola Vincy, con una sciacquetta del teatro, un po’ puttanella; ma lei sapeva nascondere bene la gelosia. Anche perché  (se non era un giorno era il giorno appresso) si vedevano loro due soli a casa sua. O anche, finché non faceva freddo, passeggiavano nei dintorni, e per la strada ogni tanto si fermavano per baciarsI, si tenevano sempre per mano: insomma, allora si consideravano “due fidanzatini“. Anche a casa continuavano con i baci: lui si metteva in piedi, appoggiato con la schiena ad una scaffalatura per poterla abbracciare e baciare senza essere visti da fuori; allo stesso tempo cercava di farle sentire il leggero gonfiore nella patta dei pantaloni, cosa che lei, del resto, non si spiegava). Oppure stavano seduti in poltrona a chiacchierare: possiamo facilmente indovinare chi aveva la parlantina sciolta e chi non sapeva mai cosa dire.

Michele era anche un tipo romantico: le scrisse due poesie sul frontespizio di un libro. Però ancora una contraddizione: diceva parecchie parolacce, e Vincy nel suo bigottismo non le gradiva. Anche se erano parolacce infantili (del tipo: cacca, culo, ecc. Non vennero mai fuori parolacce di stampo sessuale: chissà come avrebbe reagito. Michele ebbe anche l’intelligenza e la delicatezza di capire che non era ragazza da forzare a fare ciò per cui non era ancora pronta. Ne avrebbe ricevuto uno spaventato rifiuto.

La relazione dei due ragazzi meritava un intervento dei genitori. La madre, che non si era più di tanto interessata all’”educazione” della figlia, adesso sentiva che la cosa non poteva continuare senza che essa desse a Vincy un segnale “forte”.  Non sapeva che dire , ma almeno ci avrebbe provato. Così una sera che lui se n’era già andato invitò la figlia a seguirla in sala da pranzo “per parlare un po’ di questo giovanotto”. Vincy, che era ancora più imbarazzata della madre, sfoderò immediatamente l’arma del pianto, di solito infallibile. Non sapeva perché piangeva, per cui doveva trovare in fretta qualcosa da dire; ecco, poteva riprendere un discorso che c’era stato tra di loro qualche tempo prima: Michele, con aria costernata, aveva rivelato che il medico, ad una delle ultime visite, gli aveva intimato di smettere di fumare, altrimenti … (singhiozzo). . La scena si era svolta davvero, ma alla fine Michele le aveva fatto capire che era stato una specie di trucchetto “a fin di bene” per suscitarle una reazione, “Devo sapere se mi vuoi bene o no, non me lo dici mai” Era stata anche una scena tenera, entrambi commossi che si abbracciavano e baciavano. E anche nella sua ripetizione sortì il medesimo effetto: madre e figlia si commossero, la madre citò mille casi di persone a rischio che, dopo aver perso il vizio del fumo erano rifioriti, ecc. ecc. Ma rimase l’unico discorso affrontato, non si parlò più delle “intenzioni di questo giovanotto“: il pianto aveva lavato via tutto.

A questo punto ci fu Parigi. Vincy e le sue compagne, come già detto, ci andarono per un mese con la scuola. Prima della partenza era un po’ spaventata: chissà che sarebbe successo del suo amore? Lui si sarebbe forse innamorato di un’altra? Il solo pensiero la faceva soffrire. Anche lui si lamentava: “vorrei che non fossi promossa, così non andresti a Parigi”, ma, nonostante questi pensieri lamentosi, non le passò mai per la testa l’idea di restare a casa. Prevedeva, ed a ragione, di divertirsi un sacco. Le sue compagne, tutte femmine, erano simpatiche e spiritose: si davano da fare per organizzare scherzi e diffondere espressioni osé, alludendo a comportamenti spinti, facendo capire di che pasta era fatto il loro perbenismo: perfino la piccola Vincy partecipava divertendosi un mondo.  Certo nella maggior parte dei casi era un dire più che un fare, comunque erano puledre in libera uscita e ognuna, ovviamente, aveva il suo punto di partenza (dovuto anche alle diverse età). Per esempio Vincy non sarebbe mai passata alle vie di fatto, dato il tipo di educazione ricevuto; però giocava a farlo, abbandonandosi al turpiloquio e a discorsi indecenti.

E così, dopo giorni e settimane, di Michele non era rimasto apparentemente che un pallido  simulacro. Si saranno spediti sì e no un paio di cartoline a testa, e niente più (soprattutto lei; lui non rispose quasi mai). Questo finchè continuava il viaggio. Al ritorno, Vincy si sarebbe aspettata uno squillo di telefono, come d‘accordo. Invece non successe niente per alcuni giorni: lei provò anche a telefonargli con titubanza (non aveva rapporti con la sua famiglia), ma non lo trovò. Cominciò a disperarsi: questo silenzio indubbiamente voleva dire qualcosa, qualcosa che egli non aveva il coraggio di dirle a voce. E che cosa poteva essere se non il preannuncio di una rottura?

Il “non sapere” la faceva star da cani. Avrebbe preferito un discorso chiaro: almeno se la “sarebbe messa via” come si usa dire. Invece continuò per parecchio tempo questo silenzio, che a questo punto significava una cosa ancora più brutta: si era dimenticato di lei. Com’era possibile? I loro pomeriggi insieme, i loro baci, le sue lacrime?

Un bel giorno arrivò, vispo come un cardellino. Vincy era intenta ad una attività appresa da poco dalla donna di servizio: stava lavorando a maglia. Quando sentì suonare, vergognosa di apparire troppo “casalinga”, in un batter d’occhio scaraventò il lavoro dentro un armadio, scappò in bagno per ravviarsi i capelli e si presentò all’ospite . Questi si fermò 10 minuti, salutò allegramente Federico che era nei dintorni, e poi altrettanto allegramente se ne andò. Prima di andarsene fece loro vedere con aria ebete lo strafanto in voga in quel momento: lo scoubidou, E con mille smorfie da buffone ci giocò per alcuni minuti. Era fatto da una serie di spaghetti di plastica che si annodavano e intrecciavano fino a formare che so, un pupazzetto, un portachiavi, ecc: insomma una antipatica stupidaggine soprattutto per la povera Vincy che aveva altro per la testa e che da quel momento non volle più sentir parlare dell’odioso mostriciattolo.

Del resto, non si fece più vedere neanche il giovanotto, e neanche sentire. Anzi, un paio di volte lo vide di sfuggita. La prima avvenne per la strada, mentre passeggiava in centro e lo schivò per miracolo: non voleva vederlo. La seconda fu ad una riunione a scuola, non si sa in che contesto. Non si “incontrarono “ neanche questa  volta, ma arrivata a casa, in camera, da sola, recitò una breve scena di dolore, con pianti e toni di disperazione, e movimenti drammatici (alla Duse) con le braccia. Il corso di recitazione aveva fatto un buon lavoro, e lei se ne rese ben conto.

In seguito più di una volta ebbe modo di mostrare la sua forza e il suo carattere in situazioni analoghe, e se la cavò sempre benissimo. Aveva una preziosa risorsa: quando il dolore si faceva più forte, troppo forte, ottundeva per così dire i canali della sensibilità, facendosi meno fragile e quindi soffrendo di meno.  E, come forma di difesa, dava tutto il torto all’altro.

“Preziosa” si fa per dire; “preziosa“ per salvarsi la vita sul momento, ma sicuramente le avrebbe fatto meglio raccontare a qualcuno che cosa le capitava e che cosa provava. I nodi, si sa, vengono al pettine. Invece stava ostinatamente zitta su tutta la linea. Dai tempi di Tab Hunter, a parte la sua compagna di banco,  nessuno  poteva chiederle dei suoi ragazzi, dei suoi amori. Di Michele nulla, neanche a Marianna, una sua carissima amica con cui faceva ogni giorno la strada per andare a scuola. Era anche un atteggiamento se vogliamo indisponente: lo scambio di confidenze è un contenuto “forte” dell’amicizia. Ma ormai la si conosceva: era fatta così. Preferiva raccontare tutto al  diario, che però conteneva anche tanti buchi: non scriveva nulla quando era felice (troppo impegnata ad esserlo) e quando era nel pieno del dramma e dell’infelicità preferiva non mettere il dito sulla piaga e aspettare che non sanguinasse più. Scriveva appena sedata la burrasca ed era un po’ più tranquilla, ed allora si lasciava andare a osservazioni misticheggianti sulla vita, su Dio, sul destino, e così via. Note sempre ispirate ad un ottimismo per lo più scaramantico (anche se, per prudenza a volte sceglieva il pessimismo).

E il sesso?

Apparentemente, sul piano dell’informazione sessuale, non succedeva niente, ma qualcosa  doveva essere successo se, come vedremo, era passata dalla quasi-indifferenza al terrore.  Per quanto in difesa, l’intelligenza era normale e deve essersene fatta un’idea. Per di più la sua amica Marianna, che frequentava assiduamente, era il suo esatto contrario: moriva dalla voglia di raccontare, con dettagli, i suoi incontri col fidanzato; qualche dettaglio deve esserne uscito.

“Oh, Vincy, l’ultima volta, con Giuseppe, è stato così bello…ma io non ce la faccio mica ad aspettare, gliel’ho anche detto“… E Vincy: “ma Marianna che dici, possibile che non puoi portare un po’ di pazienza?“ Ecco, aveva detto la sua: era una questione di pazienza. Era sessuofoba alla grande. Non riusciva a capire come poteva chiamarsi amore un atto così sgradevole al solo pensarci. Ancora più esplicita appare in un paginetta di diario in cui si pronuncia su “Fausto ed Anna” di Cassola. Dopo una prima parte che le era piaciuta, si era imbattuta in una scena d’amore. “Non mi è piaciuta per niente, dice, “mi ha dato molto fastidio” aggiunge, ma non spiega perché. Ma, fattasi i suoi conti, basandosi su informazioni scarse e molto imprecise, doveva essersi resa conto  che sotto c’era una gran fregatura. Infatti: “se il matrimonio è una grande delusione, come sono propensa a credere, preferisco non sposarmi mai. Approvo pienamente anche la sua [di Anna] repulsione per le relazioni sessuali col marito e penso che se un giorno dovessi sposarmi non riuscirei mai a superare tale avversione”. E infine, più avanti: “Non so come, a quel tempo, desiderassi tanto sposare M. Forse non pensavo che il matrimonio comportasse tante cose orribili o forse una sola cosa, più orribile di tutte).

Qui però dobbiamo fermarci e porci delle domande, forse ingenue ma necessarie. Vincy usa le espressioni “cose orribili”, “repulsione”, “avversione”. Di che cosa sta parlando?

Possiamo pensare alla sofferenza per il pudore violato che pure grande parte aveva nella sua personalità (era un tormento la vita di spiaggia per lei: solo alla fine della villeggiatura si abituava un po‘ al costume), ma quando parla della “cosa orribile, la più orribile di tutte” , vien da pensare che si riferisca piuttosto alla penetrazione. E che se la immagini anche dolorosa. Ma come fa a saperlo? La sua amica Marianna, pur abbandonandosi all’estasi tra le braccia del moroso,  era ancora troppo giovane, per quell’epoca, per avere già avuto rapporti completi. E allora? Da dove veniva questa paura del dolore fisico se probabilmente non l’aveva ancora mai provato (intendo, neanche con l’autoerotismo)? E non aveva, è da credersi, mai visto un membro umano in erezione, cosa che, confrontandolo con l’organo femminile, avrebbe potuto spaventarla. Anche se avesse avuto pratica di nudi maschili sotto forma di statua (per esempio il David di Michelangelo) la grandezza del membro di questi capolavori non spaventerebbe una mosca.  Possiamo ipotizzare la presenza di una terza persona, per esempio la madre di Marianna che, molto probabilmente  meno repressiva nell’educare la figlia, la avesse già “preparata a questo futuro accadimento. Tra gli argomenti di chiacchiera lungo la strada verso scuola, c’era probabilmente l’occasione per parlare anche di questo. Sì, l’occasione c’è, ma sappiamo che lei non ama parlare di queste cose: facendo domande c’è il rischio di dare involontariamente delle risposte.

Le sue paure dovevano avere basi in grandissima parte psicologiche. Dato e non del tutto concesso che conoscesse l’esistenza del dolore nel primo rapporto, questo dolore è un simbolo, una metafora del vulnus che l’uomo inferisce in modo indelebile alla donna e per lei inaccettabile.  Così ho detto e così sia. Se vogliamo, la sua reazione al sesso aveva la stessa radice (anche se minor drammaticità) dell’ostinazione con cui quella volta si rifiutò di farsi accompagnare a casa dal fratello del suo corteggiatore Gabriele, o ancora il modo caparbio con cui si rifiutava financo di assaggiare il pesce. Quello che, giusto o sbagliato, aveva appreso del sesso era, come minimo, disgustoso: spogliarsi davanti al marito e mostrare tutte le sue nudità, le sue “vergogne”; lasciarsi toccare da lui e toccarlo, per non parlare della penetrazione, erano tutte cose che lei non voleva, cascasse pure il mondo, non se ne parlava proprio, non se ne doveva parlare.

Ma, stranamente, continuava a non sentirsi eccessivamente preoccupata delle proprie lacune in materia, quasi che, per miracolo le cose che oggi non combaciavano avrebbero finito per combaciare al momento giusto. Cos’è che doveva combaciare? L’immagine dell’uomo dei suoi sogni, innamorato di lei, che le desse tenerezza, affetto, simpatia (ne parla apertamente nel diario): aggiunge che lo vorrebbe ricco e generoso, che la facesse viaggiare e divertire: che lo volesse anche vecchio e impotente? Si direbbe di sì, leggendo l’ultima postilla: purché non si mettesse in mente di toccarla intimamente contro la sua volontà. Tutto ciò doveva combaciare, come in uno scambio, con quello che lei sentiva di poter dare, ma si rendeva conto che era poco: baci, abbracci, affetto…ci voleva un miracolo, che avrebbe dovuto far succedere che l’amore fisico si facesse facile, indolore, senza vergogne. E vissero tutti felici e contenti. A dire il vero, però, se togliamo il miracolo, è proprio così che si liberò del suo male, sia pure dopo parecchi anni e stressanti difficoltà.

Nel frattempo si era manifestata e codificata una ragione in più per rifiutare il sesso, una ragione per restare casti: il fattore religioso. In realtà religiosa, e in particolare cattolica, lo era da sempre, per educazione familiare, (anche se recentemente si era interessata di più alle chiese protestanti) ma non aveva messo in relazione la paura  con il  peccato. Non si era accorta che si trattava di due cose diverse:  il pensiero che qualcuno potesse entrare dentro di lei le dava la sensazione della morte fisica , il peccato la preparava all’inferno.

Autostima

E quelli che seguirono furono gli “anni dell’interregno”, o anche (impropriamente) di latenza; anni in cui si interessò più che altro alla scuola, un interesse faticoso perché non amava tanto concentrarsi su di un solo aspetto della vita, e finiva così con lo studiare in modo superficiale e confuso. Ma insomma se la cavò. I passatempi più “sociali” consistevano per lo più in ascolto della musica, in dischi e concerti,  nel cinema, assiduamente frequentato, e, soprattutto, nell’approfondimento dell’amicizia con un paio di amici di suo fratello che, bontà loro, la trovavano simpatica!  Una sensazione bellissima e tanto attesa. Per la prima volta delle persone interessanti ed intelligenti (e con qualche anno di più di lei) la cercavano per fare insieme delle cose: il teatro, il cineforum… tutto, apparentemente, senza nessun coinvolgimento amoroso. Una grande sensazione di libertà. Anche questa volta, comunque, i nodi vennero al pettine, anche se, in un caso, in modo piacevole. Uno dei due ragazzi, una persona molto sensibile e comunicativa, finè per innamorarsi di lei. Un giorno, di ritorno da una passeggiata. avevano passato un pomeriggio insieme a chiacchierare nel salotto di casa (quello dove stavano, a suo tempo, lei e Michele) e senza che se ne  accorgesero, arrivò sera. L’atmosfera si fece suggestiva e favorì le loro confidenze, anche le loro commozioni. Si lasciarono entrambi con la sicurezza che era avvenuto qualcosa di importante tra di loro.

Ma non era amore, almeno non per Vincy. Era un acco di altre cose: comprensione, affetto, ammirazione, sentirsi bene insieme, ecc. ma (a volte capita) Vincy non ne era innamorata, non le piaceva niente di lui dal punto di vista fisico. E dovette dirglielo. Pur restandoci male, lui si rassegnò e ben presto (anche questo capita) si innamorò di un’altra. E Vincy ci rimase male, molto male, solo adesso capiva che cosa aveva perso. Tuttavia non era pentita, sarebbe tornata a comportarsi allo stesso modo nelle stesse circostanze.

E ancora una volta vediamo Vincy nell’impegnativo percorso sulla strada  della vita, sia materiale che spirituale. In questo periodo è sola, non ha presenze affettive vicino a lei: si potrebbe anche dire che è libera. Un’altra volta in passato si è trovata così: quando, passati i grilli per il capo, le si presentò un maggiore contatto con la realtà vera, rassicurante, e pazienza se questo le toglieva sogni di passione e di avventura. Sarebbe stato meglio ritrovarsi con uno sconosciuto (Tab Hunter)? Certo, nessuno può dirlo. Una scelta esclude tutte le altre. Oppure, per restare in patria, sarebbe stato  meglio trovarsi a dover gestire un rapporto con uno come Michele? Che l’avrebbe facilmente fatta soffrire con quel suo carattere bizzarro e in definitiva incomprensibile? Dài tempo al tempo, cara Vincenzina, lascia che la vita ti passi accanto senza colpirti con troppa violenza, non sei ancora pronta.

Il magnifico scantinato

E dopo la maturità, il balzo in un nuovo gruppo di amici. Un ambiente delizioso, uno scantinato illuminato da luci soft, tanto legno e calore. Ci si ritrovava di pomeriggio (il periodo era quello dei mesi che intercorrono tra la maturità e l’inizio dei corsi unversitari; di solito ci si lamenta per la stanchezza pregressa e si chiede alla famiglia di essere paziente e di concedere al giovane qualche mese (!) per riposarsi. Per carburarsi.) Erano presenti una decina o poco più di ragazzi e ragazze per volta con vari diversivi creati dai capricci di qualche primadonna per fortuna antipatica a tutti. E invece, ecco che vediamo Vincy che fa la sua figura: bella, simpatica, gradevole per tutti. Si canta, si suona la chitarra, si chiacchiera, si balla: più o meno, mutatis mutandis, le stesse cose che si facevano nella “festina” all’inizio di questo libro. Più qualche sorpresa e qualche curiosità: chi era, per esempio quel bel ragazzo con quella giacca simpatica che aveva un sorriso per tutti? O quell’altro che gli stava vicino, anche lui un po’ curioso nel modo di vestire, tutto in nero, che ricordava, chissà perché, uno spagnolo? Si beveva anche: oh, che novità! Lo era per Vincy. Non che l’ambiente fosse malsano, non si viveva per bere, né era impossibile viverne senza: era un piacere in più. Ma di memorabile ci fu proprio la sbornia della nostra ragazza, che la portò a dire e a fare cose imbarazzanti per lei (a posteriori), ma divertenti per chi la stava a guardare).

La nostra amica era anche molto corteggiata: si sarebbe detto quasi che facessero a gara per accaparrarsene: tutti comportamenti che, almeno nei primi tempi, la mandavano in estasi. C’erano amici nuovi che lei aveva intravvisto qualche volta, e c’erano anche (guarda un po’) alcuni giovanotti che abbiamo presentato all’inizio di questo scritto come “portatori di odore di carne sul collo” cioè quelli con cui “le piaceva molto ballare”. Così, tra una chiacchiera e un ricordo, ormai sicura di sé e di quanto valeva, poteva anche permettersi di riderci sopra all’odore del maschio e proprio con i maschi dell’epoca.

In un film, la coincidenza tra la presenza di alcune persone sia in queste festicciole che che nella precedente di 10 anni prima, suggerirebbe di chiudere in bellezza la partita. Ora Vincy sta bene con tutti, ha già in progetto l’università dove riuscirà ad avere parecchie gratificazioni.

Ma la vogliamo lasciare  sola con i suoi problemi sessuali?

Lo “spagnolo” non  era una semplice comparsa, né lo era il ragazzo con la giacca quadrettata, né il bravissimo suonatore di banjo, né tanto meno lo erano i ragazzi “odorosi”: sono invece elementi più o meno portanti della nostra breve storia. Non c’è tempo di fare la presentazione di tutti, ma forse si riuscirà a farne dei brevi cenni.

Fin dai primi pomeriggi nello scantinato era presente un ragazzo un po’scuro di pelle e di capelli, e perfino di vestiario: sembrava di etnia spagnola; visto che suonava molto bene la chitarra classica piacque un bel po’ a Vincy (che, ricordiamolo, era affettivamente “libera”) e un po’ per scherzo e molto no, si mise tranquillamente a civettare con lui, o meglio, senza di lui. Infatti se ne stava impassibile come una guardia della corona, sembrava sordo a tutti i richiami, anche ad una innocente chiacchierata. Abbiamo già visto che in questo  periodo Vincy incontrava molto, quindi non era più abituata ad un trattamento così respingente: perciò abbandonò prestro la preda. Erano quasi sempre presenti entrambi, ma la scena non cambiò.

Dopo un periodo in cui gli incontri nello scantinato per motivi vari vennero sospesi, ecco che si ripresenta l’occasione di una nuova festa. Dopo tanto tempo! Avrebbe forse rivisto lo spagnolo! Emozionata e rammaricata di non avere niente di nuovo da mettersi, mentre sicuramente le smorfiose primedonne sarebbero arrivate tempestate di brillanti, fece la seguente pensata: l’importante è avere qualcosa di nuovo addosso da esibire per l’occasione: doveva essere proprio un vestito? Andò in cucina, prese le forbicione con cui si tagliava lo spago dell’arrosto, le lavò e si mise all’opera. Da lunghi che erano i suoi capelli davanti allo specchio del bagno divennero cortissimi: non sembrava neanche lei; però era carina ed originale. E il successo alla festa era assicurato: l’importante è farsi notare, no?

(Un’occhiata al pubblico presente: ci sono Daniele, Mario, Luigi, Andrea, Giampiero e Alberto…ma lei, sappiamo chi sta cercando. E un attimo dopo sappiamo anche CHI sta cercando lei: E’ Piero! Lo spagnolo!)

Avanza dritto verso di lei, le prende le mani e si mettono a ballare insieme. Il primo gesto che lui fa è di arruffarle i capelli: un modo per comunicarle varie cose: che era carina, che si era accorto del taglio, e, con un sorriso inedito, che era contento. Contenta, figuriamoci, lo era anche lei: si accorse che in tutte le settimane in cui non l’aveva visto aveva pensato a lui e a come rivederlo (scorbutico come sembrava, era un problema cercarlo e invitarlo da qualche parte.) Adesso poteva francamente dire che non desiderava altro dalla vita.

Ballarono insieme tutta la sera, ma non in modo esclusivo: ogni tanto era piacevole anche separarsi, unirsi a qualche gruppetto di persone, alcune conosciute altre no ed esibire, anche se lontano, il nuovo amore di cui, tra l’altro, quasi tutti erano a conoscenza. Era diventata, quella di Piero e Vincy, una non-coppia mitica. Fin dall’inzio si accettarono scommesse.  E adesso c’era rimasto ben poco da scommettere.

Finiamo qui la serata. Passeggiatina per arrivare all’auto e, per stasera, tutti a nanna.

Si videro sempre. Ogni giorno lui passava a prenderla a casa con l’utilitaria della mamma e passavano insieme il pomeriggio, o a casa di lui o in giro. Erano contenti, e si amavano: Ma non è pensabile che il macignio che lei si portava dentro fosse ininfluente nel suo modo di vivere il rapporto con Piero, nel comunicare il suo sentire; per non sbagliare, per non rischiare di dire cose inopportune, non gli aveva detto niente. Ovvero, per semplificare, gli aveva fatto capire che era religiosa e aveva dei principi morali inattaccabili

Del resto, fin dai primi tempi della loro frequentazione si parlò saggiamente di castità: entrambi alla prima esperienza, fu Piero a fare l’affermazione più sorprendente: “E’ più bello aspettare il matrimonio.” Che sollievo per Vincy che già vedeva avvicinarsi tensioni e lunghe discussioni! purtroppo per lei, però il proposito non fu mantenuto a lungo. E vedremo come andrà.

E col passare del  tempo, delle settimane, dei mesi, l’umore di Vincy s incupì, come se avesse paura di ciò che le stava capitando, paura di aprire verso gli altri il suo mondo, e, scottata più di una volta (ma quando mai?), adesso volesse andare guardinga, timorosa che qualcuno le rubasse qualcosa. Ma non aveva ragione alcuna di dubitare di Piero, era un ragazzo affettuoso e sensibile, e se all’inizio si era mostrato un po’ duro e sulle sue, ciò era dovuto alla timidezza. In verità era molto contento della sua ragazza di cui era sicuramente molto innamorato. Le paure se le costruiva lei: era turbata all’idea di affezionarsi troppo e di fare la fine che fece con Michele. Certo, una sola “scottatura” (anche se lei si ostinava a dire due: pensava forse a Tab Hunter?) non era sufficiente a segnarla in maniera indelebile, ma chi siamo noi per dirlo?

Fatto sta che non vedevano nessuno al di fuori di… loro stessi; Piero non era entusiasta di questa soluzione ma era pronto ad accontentarla in tutto: se andava bene per lei, andava bene anche  per lui. Per ora.

Per non sprofondare nella melassa del lieto fine, anticipiamo che la loro storia durò un anno e mezzo circa, così non ci facciamo da subito troppe illusioni. Ma come finì? E perché? Il “perché” è sempre più difficile da sviscerare perché spesso si attorcigliano ragioni diverse e a volte inestricabili. Il come riguarda l’apparenza, i comportamenti che di solito sono visibili a tutti, o quasi.

C’è da dire che entrambi erano sui vent’anni, ed ancora troppo giovani per costruirsi un rapporto stabile, per accettare il modo in cui è fatto l’altro, per sapere che fare in ogni circostanza, infine per sacrificare le parti di sé che vanno sacrificate per poter progettare una vita insieme.  Non ci occuperemo comunque della loro rottura, che verrà più avanti, ma dei problemi che dovettero affrontare nei primi tempi.

Purtroppo per  lei,  il proposito  di non chiederle la “prova d’amore”, in quanto favorevole anche lui all’astinenza non fu mantenuto a lungo. C’era da aspettarselo. Spesso è una semplice questione di ormoni. I maschi di quell’età sostengono anche di soffrire le pene dell’inferno se tentano di andare contro natura: un intenso dolore ai testicoli è il segnale che non si deve più aspettare. Che sia vero o no,  un fatto è sicuro: i ragazzi (maschi, in genere) resistono a fatica all’astinenza. Questo le disse Piero con aria dispiaciuta, ma lei, altrettanto dispiaciuta, rispose che ragioni morali e religiose glielo impedivano.

L’atmosfera si faceva sempre più tesa, più dolorosa. Lei avrebbe voluto accontentarlo: ma chi gliene dava il permesso? Era sicura che se si fosse confessata (cosa che non faceva mai), il prete le avrebbe detto di resistere…bella forza, lo sapeva anche lei. E se si fosse “buttata” così alla cieca, se ne sarebbe sicuramente pentita. Anche stavolta avrebbe avuto bisogno di qualcuno con cui confidarsi. Ma la sua patologica riservatezza glielo impediva. Così i pomeriggi erano sempre uguali: una specie di immotivato rancore di ognuno nei confronti dell’altro, anche se non palesato: entrambi sembravano  consapevoli che non era colpa di nessuno,  son cose che capitano, il destino, etc. etc. Erano arrivati ad un punto chiave: o le cose si risolvevano al più presto, (senza del resto sapere chi avrebbe dovuto cedere) o era meglio che non si vedessero più. Troppa sofferenza. E intanto Vincenzina in quei lunghi pomeriggi a casa scovò L’amante di Lady Chatterly che la fece piangere ancora di più per la felicità di quell’amore.

Deus ex machina

Ci siamo forse dimenticati del simpatico e caro Federico? Eppure, anche involontariamente, ebbe una parte di rilievo sul finire della storia. Bisogna premettere che nel frattempo, oltre a quasi laurearsi in legge, si era trovata una morosa. Annamaria. Una ragazza deliziosa, spontanea,  un amore insomma. E cattolica. Lo disse con una esagerata smorfia di disgusto Federico stesso, la prima volta che, a tavola, parlò di lei a tutta la famiglia;

– E come farai ad accettarla, tu che sei un senza dio? Chiese suo padre che stimava moderatamente Federico, ma non ne approvava i modi ostentatamente “laici”.

– Ma non è una bigotta!

–  cioè?

–  Cioè: crede in dio, vuole un bene dell’anima al papa, ma non segue tutti i precetti della fede, se  ne frega, mangia carne al venerdì, non va a messa ogni domenica, fa l’amore quando vuole, anzi quando voglio io…

– Federico! – la mamma – Non  a tavola questi discorsi!

In un solo colpo Vincy, che non era neanche entrata nella discussione, aveva saputo un paio di cose interessanti: per prima cosa suo fratello era ateo, senza per questo essere un mostro.  Si poteva essere delle perle senza obbedire ai precetti divini, anzi ignorandoli tranquillamente.  Ecco spiegato perché dio permette il male nel mondo: perché non c’è. La morale, quella che ci detta i principi del vivere umano /sociale è opera dell’uomo, ciascuno si sceglie la propria e vive conseguentemente.

Seconda novità: la sua ragazza era addirittura cattolica, anche se forse un prete avrebbe avuto a che ridire su questa auto-definizione, ma, come detto, sono gli umani che sentono dentro di sé che cosa è giusto e che cosa no.  Naturalmente Vincy era particolarmente interessata al peccato sessuale, a cui Annamaria, a sentire Fedi, non  badava. Sarà stato vero? Lei l’aveva conosciuta, ma naturalmente non si era parlato di sesso.  Si può dunque essere religiosi a modo proprio, scegliendo le cose che ci vanno bene e scartando tranquillamente le altre? Lei conosceva già Annamaria, e nemmeno lei era un mostro.  E si fidava ciecamente del fratello, dei suoi principi morali, che per lei erano vangelo, da sempre.

Avrebbe però voluto una controprova, in fondo Federico, per fare spirito, poteva aver detto una balla sulla castità. Così un pomeriggio, appena tornata a casa, e sentito che c’era qualcuno che parlava da qualche parte, si avvicinò alla porta del soggiorno e vide Federico che allacciava il reggiseno ad Annamaria, e che, già che c’era le strizzava un capezzolo: – Ahi, maledetto! gridò lei, ma subito dopo si baciarono intensamente. Aveva bisogno di altre controprove? Non era sufficiente vedere la confidenza, la disinvoltura c’era tra i loro corpi?

Evidentemente a Vincy bastava poco per essere rassicurata sul da farsi, per cui, armata di coraggio, avrebbe voluto chiamare subito Piero per confessaergli che le cose per lei erano cambiate e se potevano vedersi. Ma preferì aspettare e dar tempo al tempo, non c‘era fretta, meglio non precipitare le cose. In fondo aveva anche lei bisogno di sapere se lui era in grado di cedere di qualche punto…

Il giorno dopo telefonò lui: “vediamoci, non posso stare senza di te”. Era il segnale che lei aspettava.

“Ho tanta paura, gli sussurrò all’orecchio al primo abbraccio.

“Fidati di me. Guarda, soggiunse, non dobbiamo per forza fare l’amore in modo completo;  mi basta tenere il tuo corpo vicino al mio e accarezzarti,  così… e le pose le mani sopra il maglioncino. Lei ebbe un moto di soprassalto al sentirsi toccare i seni, anche perché non portava  il reggiseno. Ma non lo scacciò, rinmase immobile.  Incoraggiato lui continuò, infilandogli le mani sotto il golfino e incontrando la pelle..

Non lo cacciò mai più. Nemmeno nei giorni seguenti. Lei, sorpresissima, non aveva provato alcun disgusto, tutt’altro. Anzi, arrivando a casa il primo giorno si sentì sì “immorale”, ma le fece piacere…

Infranto (ancora molto parzialmente) il tabù, si poteva parlarne con un minimo di rilassatezza. E lui, emozionato e tenero, le chiese: vuoi che ti spieghi che cosa succede quando si fa l’amore?

– Oh sì, lo pregò lei, ho una confusione in testa, non capisco più niente.

Così lui la “informò”. Era anche per lui la prima volta, ma si sa, i maschietti…Ne aveva bisogno, aveva tante lacune e confusioni, ma non gliele volle dire tutte, si vergognava della propria ignoranza.

Che cosa aveva scoperto, infine? Che non esisteva la repulsione, la vergogna, che era bello mostrare il proprio corpo quando si è innamorati. Era quello che aveva lasciato intendere Federico e, indirettamente, la sua ragazza. Naturalmente era solo a metà strada, ancora non aveva affrontato il discorso della “cosa orribile, la più orribile di tutte”. Quella le faceva tuttora molta paura. E dopo aver visto le dimensioni degli “attributi“ di Piero, disse: certo la natura, almeno nel mio caso, si deve esere sbagliata, non ,sono 2 misure compatibili! Ma lo disse con allegria. Non aveva più paura dell’inferno, non poteva peensare che dio la potesse far dannare perché si era lasciata toccare da qualcuno che amava.. Non aveva più paura del peccato, ma di essere squartata sì.

 

EPILOGO

Federico : ciao, da dove vieni?

Vincy: Da una seduta

F : Ah, e come ti trovi?

V : appena egregiamente

F : porco boia, così miracolose queste terapie?

V : se è per questo, curano nevrosi anche peggio della mia

F : Ne esistono?

V  ma va fan brodo!

F : ma dài non si può neanche scherzare! Ah, Vinciotta, quante ne combini! Ma perché ti hanno messo questo nome così idiota?

V : non lo sai? Era il nome della madrina della mamma

F :  ma no, quella si chiamava Pasqualina! Mi ricordo quando eravamo piccoli e io me la ricordo ancora, a pasqua bisognava farle dei doppi regali, Vincenzina era il nome della sorella antipatica. Pasqualina invece era simpatica

V : Dio mio, per fortuna la mamma ha scelto il nome della cattiva, sai se mi chiamava Pasqualina? Diminutivo Pasquetta…vacanze all’isola d Pasqua…

F : spiritosa! Si vede che la mamma ha avuto pietà di te.

V : sì, la prima e l’ultima volta, direi.

F : perché?

V : ti pare che si sia occupata tanto di me? Neanche come nascono i bambini, mi ha mai detto

F : Eh, tu pretendi troppo, quello è un discorso tabù, i genitori di solito non riescono a spiegarlo

V : Perché?

F : Non sanno che dire. La verità? Si spaventano a parlarne, non sanno dove si devono fermare, tanti dettagli non li sanno neanche loro. Pensa un po’! Alla loro età!

V : A te la mamma ti ha detto qualcosa sul sesso?

F : Papà. Ma ero troppo grande, ne sapevo più io di lui! E che imbarazzo! Saremo così anche noi? Che non si possa parlarne come di una cosa semplice, naturale? Io non credo, sarà sempre così…

C : e a te, allora, chi ti ha spiegato tutto?

F : I maschi se la cavano sempre. Di solito ci compravamo i giornaletti porno, molto istruttivi… Ma a che ora vengono?

V: Credo sulle 6. Ma non so chi viene, è un po’ tardi.

F: simpatici?

V : quelli selezionati da me, sì. E’ che così sono rimasti pochi. Speriamo che riescano a portare qualche strumento.

F : Chi suona?

V: Beh, Carlo suona benissimo un’armonichetta a bocca, ma vedessi come fa! Senza mani perché deve anche suonare la chitarra, per tappare ii buchi usa la lingua che sposta di qua e di là..Piero la chitarra lo sai. Alberto il banjo…quello poi è bravissimo, mentre suona sembra che guardi te, invece ha lo sguardo perso nell’infinito, fa impressione. E poi sembra burbero, invece è molto simpatico. E poi Luigi e Mario, che cantano solo. Poi le ragazze che fanno da coriste

F : A proposito di simpatia, posso farti una domanda: si può sapere perché vi siete lasciati tu e Piero?

V : troppo lunga da spiegare. Ma è stato bene così. Litigavamo sempre, andiamo più d’accordo adesso…

F : Va bene, ma intanto tu sei di nuovo zitella, cara, vecchia zia Pasqualina!

V : Chi l’ha detto? Credi che venga a raccontartelo a te ogni volta che conosco un uomo?

F : non mi dire, hai un nuovo fidanzato! E chi è?

V : Non lo conosci, è il fratello di una mia amica o quasi…

F : quasi fratello o quasi amica?

V : scemo. Sono siciliani, ma lei è qui da un paio d’anni

F : e lui?

V : lui si sta trasferendo adesso

F : e perché si trasferisce?

V : oh bella! Ma per stare con me!

F : Non ci credo!  Così maliarda sei? Fai strage di uomini come io di scarafaggi in garage! A proposito di scarafaggi, che fine ha fatto quel mona con lo scoubidou?

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