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Nicola Gratteri, chiesa e mafia: qualcosa è cambiato con Papa Francesco a Sibari

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Il Dott. Nicola Gratteri – Procuratore della Repubblica di Catanzaro

Introduzione di Fabio Gallo/ direttore editoriale/

Quella della “spianata di Sibari” è da definire una pietra miliare della spiritualità cristiana. Un vero e proprio attacco a Satana. Un attacco a 360 gradi che non lascia scampo. L’anatema lanciato da Papa Francesco “agli operatori del male”, apre ad una riflessione che va ben oltre i sodali alle mafie. Questo anatema è una scomunica a tutti coloro i quali producono qualsiasi forma di male. Una rivoluzione, pronunciata nella regione simbolo della ‘ndrangheta che nella sua nuove versione più penetrante nelle istituzioni può sfuggire alla Giustizia ma non a Dio. E il pensare di Dio Padre è tanto importante per chi ha fede che, antropologicamente, per chi, come il mafioso, deve legittimare il suo comportamento attraverso i rituali che avocano il divino e nume supremo e benedicente. A ricordare questo storico momento è il Procuratore Nicola Gratteri in una intervista a Famiglia Cristiana che proponiamo perché a chi fosse sfuggita, possa tornare utile la sua lettura.

Papa Francesco, il più citato Nicola Gratteri, uno dei magistrati più impegnati contro la ’ndrangheta e uno dei massimi esperti di criminalità organizzata calabrese, da aprile 2016 guida la Procura di Catanzaro. Autore, assieme allo storico Antonio Nicaso, del libro Acqua santissima sui rapporti tra ’ndrangheta e Chiesa, è rimasto molto impressionato dalla forza delle parole di papa Francesco e dalla scomunica lanciata ai malavitosi davanti a 250 mila fedeli riuniti nella Piana di Sibari nel 2014. In questa intervista ci spiega perché qualcosa sta cambiando.

La Chiesa e il suo silenzio davanti alle mafie è argomento rimasto aperto per tanto tempo. Ora sembra ci siano fatti significativi, azioni energiche da parte della Chiesa. Secondo lei, si stanno creando sinergie nuove nella lotta alla mafia? E che impatto hanno?

«Sì, qualcosa è cambiato dalle parole di Francesco in Calabria: il Papa, contravvenendo a convenzioni e rituali, ha strappato il discorso preparato e ha parlato a braccio. Ed è andato oltre sia alle parole di papa Wojtyla nella valle dei Templi ad Agrigento che alle frasi di papa Ratzinger nella sua visita a Lamezia. Francesco per la prima volta, più che ai mafiosi, si è rivolto ai vescovi e agli uomini di Chiesa. Da allora vedo le posizioni di alcuni vescovi molto più chiare e determinate contro la criminalità organizzata. Ci sono pastori che stanno prendendo posizioni molto ferme, per esempio il vescovo di Catanzaro, monsignor Bertolone, che parla molto chiaramente ed è molto attento. Intervenendo su certe dinamiche non chiare sta indubbiamente contribuendo al cambiamento, è un vescovo coerente rispetto al suo compito e alla sua funzione. Ma in Calabria ci sono anche molti preti impegnati e che operano in questi territori seriamente e in punta di piedi».

Concretamente in che modo sta intervenendo la Chiesa?

«I miglioramenti sono per esempio nella maggiore attenzione alle processioni, una volta affidate alle confraternite e dunque difficilmente controllabili, e ora sottratte al loro esclusivo controllo».

Lei ha parlato recentemente di pentiti all’interno della ’ndrangheta, fino a ieri considerata un’organizzazione pressoché impenetrabile dallo Stato. Tra i pentiti, ci sono anche dei convertiti?

«Convertirsi a chi e a cosa? Vede, la quasi totalità dei malavitosi appartenenti alla criminalità organizzata si definiscono persone di fede. Nel 2013 sottoposi un questionario a 111 detenuti di alta sicurezza (imputati e condannati per associazione mafiosa) nel carcere di Reggio Calabria: ebbene, alla domanda “lei è religioso?”, 99 detenuti risposero di sì, 10 dissero di no, uno non rispose e un altro disse di esserlo a seconda della convenienza. Non solo: 96 hanno dichiarato di pregare regolarmente e 94 di aver pregato anche prima di finire in carcere».

Il santuario di Polsi ha una fama sinistra di luogo in cui si svolgono i summit della ’ndrangheta. È una leggenda o c’è del vero?

«A Polsi non ci sono più quelle riunioni di centinaia di ’ndranghetisti che intorno al santuario della Madonna, in occasione soprattutto della festa di settembre, ratificavano nomine e incarichi, non sono più avvenute le mega-riunioni in cui si decidevano strategie da seguire, si facevano i programmi e gli organigrammi, come avvenne nel 1969. Ora i vertici si tengono in alberghi o ristoranti, e le occasioni per stringere alleanze sono matrimoni, battesimi. La Chiesa oramai è lontana dai circuiti di potere per cui alle mafie interessa poco. Gli ambiti sono la politica, le amministrazioni, l’economia».

Secondo lei, la Chiesa come dovrebbe affrontare questo cancro sociale e morale?

«Ritengo che dovrebbe essere complessivamente più dura. Se vuoi essere accolto nella casa di Dio ti devi pentire, devi creare un muro tra te e tutto quello che ha a che fare con la malavita organizzata. La Chiesa dovrebbe applicare regole certe: se sei notoriamente un capomafia non devi presentarti in chiesa ed elargire somme di danaro per ristrutturare parrocchie. Credo che i preti non dovrebbero accettare la carità se la provenienza del denaro è dubbia».

Dopo anni a Reggio, da aprile scorso lei è Procuratore capo a Catanzaro. Che progetti ha?

«Di ristrutturare tutto, di farla diventare una grande Procura, di farla uscire dalla palude melmosa in cui è stata per anni. Innanzitutto ci trasferiremo in un altro edificio, l’ex ospedale militare di Catanzaro. Crescerà di organico in termini consistenti, dovrà essere espressione di una Procura efficiente contro la mafia, e contro i reati frutto della collusione con le amministrazioni, contro la corruzione».

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