A cura di Pietro Stilo/
Una riflessione sulla politica estera di Donald Trump ad oggi la considero non semplice e prematura, oltre al fatto che essa richiederebbe, naturalmente, un ragionamento molto più profondo di quello che propongo in questa analisi, ma provo comunque a darne una prima lettura.
Partiamo dai temi che il Presidente neo-eletto degli Stati Uniti d’America, ha toccato durante la sua quantomeno singolare campagna elettorale, una campagna fatta di slogan e di argomenti in totale antinomia con i suoi predecessori.
Non a caso parlo al plurale, perché il Tycoon di NY, non ha solamente criticato l’approccio e l’eredità lasciata all’America ed al mondo da Barack Obama, ma ha anche criticato le linee di intervento di molti presidenti americani prima di lui, compresi i due Bush, che l’ex candidato anti-sistema considera al pari dei Clinton una casta politica, ma è arrivato finanche a criticare Ronald Reagan, considerato da sempre un mito per l’elettorato repubblicano. Dietro lo slogan “America First”, più volte ripetuto quasi come un mantra durante la sua campagna presidenziale, Trump cela il desiderio di cambiare le carte in tavola nella politica estera USA, così come lasciate da Obama; quasi tutto infatti lo divide dal presidente uscente: dalla volontà di non proseguire nei vari accordi regionali di libero scambio come il TTP con l’area del Pacifico, il TTIP con l’Europa ed il NAFTA con Canada e Messico (la sua avversione è diretta al Messico per via dell’immigrazione clandestina, del narcotraffico e della manodopera a basso costo che attrae la delocalizzazione delle imprese USA); alla volontà di regolamentare la finanza che dalla presidenza Clinton in poi ha prodotto sperequazioni mai conosciute prima; alla revisione del percorso di riavvicinamento con la Cuba castrista; un nuovo impegno in Medio Oriente magari non più in contrasto con la Russia ma di concerto con essa (ribadendo sempre però la superiorità relativa a stelle e strisce), in questa direzione la nomina di Rex Tillerson a Segretario di Stato è un chiaro segnale di avvicinamento diplomatico e geo – economico verso Mosca; gli accordi con l’Iran sembrano ancora una volta essere messi in discussione, al Senato si approva l’Iran Sanctions Act che prolungherebbe le sanzioni economiche verso Teheran (con il malcontento diffuso tra le big companies come Boeing), il contrasto comune con la Russia all’IS ed al fondamentalismo di matrice islamica che negli ultimi anni ha conosciuto una mutazione ed una proliferazione mai conosciute prima, tali obiettivi passano dal recupero del rapporto di vicinanza con paesi come Israele, con il quale il dialogo si era un pò incrinato durante l’Amministrazione Obama e che oggi sembra poter avere nuovo slancio in seguito all’annuncio della nomina ad Ambasciatore USA in Israele di David Friedman un avvocato di 57 anni, ebreo ortodosso e suo amico, che ha dichiarato che non vede l’ora di mettersi all’opera a Gerusalemme, creando non poche polemiche nel mondo arabo e non solo, in considerazione anche del fatto che la capitale dove lavorano le ambasciate è Tel Aviv, e la volontà di un ulteriore riavvicinamento con l’Egitto di Abd al-Fattha al-Sisi, da sempre considerato paese pivot nell’area sud del Mediterraneo.
Ulteriori elementi che lo dividono dal suo predecessore sono: la riduzione dell’intervento militare americano nel mondo, che a dire il vero già con Obama cominciava a far sentire i suoi effetti, basta considerare il lento disimpegno USA in Medio Oriente degli ultimi anni; ed in linea con tale pensiero la ridefinizione del ruolo e dei contributi economici degli USA alla NATO, considerata non più strategica da molto tempo ormai, anche in vista di una distensione dei rapporti con la Russia e con il suo leader Vladimir Putin, più volte annunciata da Trump in campagna elettorale e che trova nel capo del Cremlino un interlocutore disponibile, almeno a parole, i due infatti ancora non si sono mai incontrati, è di questi giorni inoltre la polemica sul sostegno a Trump fatto dalla Russia durante la campagna elettorale, criticato direttamente niente di meno che da Barack Obama. In questo perimetro si inseriscono anche i rapporti con la Cina, che non sembrano idilliaci fino al momento, Trump infatti ha più volte dichiarato di voler alzare muri protezionistici attraverso dazi ed altri strumenti di politica commerciale, nell’idea di spingere le imprese USA a non delocalizzare, ed in questa politica di rottura si inserisce anche la telefonata con Taiwan tanto criticata da Pechino. Tutto ciò cambierà lo scenario fin ora conosciuto, questo è ormai comprensibile anche ai non addetti ai lavori, ma senza particolari contraccolpi a mio avviso, ciò per diversi motivi, tra cui il pragmatismo che muove l’azione politica di Donald Trump. Certo è che un eventuale spazio lasciato vuoto dall’amministrazione Trump verrà occupato immediatamente da altri attori geopolitici globali, ad esempio dalle cosiddette economie emergenti dello scacchiere planetario, molto dinamiche in questa direzione; insieme ad esse potrebbe sicuramente avere un ruolo maggiore (in un potenziale scenario del genere) anche la stessa Unione Europea se fosse capace però, di essere maggiormente concreta ed incisiva nella sua azione esterna e nei suoi obiettivi comuni.
Dr. Pietro Stilo
Università Mediterranea di Reggio Calabria