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La prova che COVI19 e inquinamento vanno a braccetto

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Da Famiglia Cristiana – E’ un dato di fatto innegabile: le associazioni statistiche tra la pandemia del Coronavirus e la crisi ambientale, il cambiamento climatico, la cattiva qualità dell’aria che respiriamo sono schiaccianti. Nel prossimo futuro, se vogliamo ridurre i rischi di pandemie da virus come il Covid-19, è necessario un radicale cambiamento: non possiamo più continuare sulla vecchia strada, in termini di stili di vita, lavoro, gestione casalinga e attività produttive. A metterlo in evidenza e spiegarlo con chiarezza è uno studio intitolato “Comprendere l’eterogeneità degli esiti avversi del Covid 19: il ruolo della scarsa qualità dell’aria e le decisioni del lockdown”, condotto da Leonardo Becchetti, docente dell’Università di Roma Tor Vergata, Gianluigi Conzo, anche lui della Tor Vergata, Pierluigi Conzo dell’Università di Torino e Francesco Salustri, del Centro di ricerca sull’economia della salute dell’Università di Oxford.

Come spiega Becchetti, economista e docente di Economia politica, nell’indagine sulle cause di contagio e decessi per Covid-19 in tutta Italia, sulla base di decine di migliaia di dati giornalieri comunali e provinciali, emerge la correlazione fra tre fattori: il lockdown, il livello dell’inquinamento locale – polveri sottili ma anche biossido di azoto – e le tipologie delle strutture produttive locali, in particolare le attività non digitalizzabili, che quindi nel periodo peggiore della crisi epidemica hanno avuto maggiori resistenze a chiudere. «Da decenni la letteratura medica ha dimostrato che l’inquinamento ha effetti diretti sul contagio e sulla gravità degli effetti che un virus può creare». La qualità dell’aria e le caratteristiche atmosferiche contribuiscono a favorire la diffusione di un virus resporatorio o a inibirla.  «E i risultati della significatività statistica del rapporto tra polveri sottili, contagi e decessi da Covid-19 nei Comuni e nelle Provincie italiane dopo aver controllato per gli altri fattori concomitanti confermano questo quadro. Il nostro studio è nazionale, su tutto il territorio italiano, ma il livello delle polveri sottili risulta più elevato in Lombardia, nella Pianura padana (Emilia-Romagna) e anche nelle Marche, la zona di Pesaro-Urbino, proprio le aree dove si sono manifestati i numeri maggiori di contagio. Già prima che scoppiasse l’epidemia del Coronavirus, avevamo centinaia di ricerche che dimostravano che laddove sono presenti in modo più consistente le polveri sottili i polmoni tendono a reagire in maniera più infiammatoria nel momento in cui entrano in circolazione virus e malattie respiratorie, facendo sì che gli effetti di questi virus siano più gravi. Il problema è anche la durata dell’esposizione, ovvero per quanto tempo le persone abbiano vissuto in luoghi con concentrazioni alte di polveri e abbiano quindi respirato quest’aria».

Il lockdown in questo senso ha prodotto come effetto un’aria più pulita. «Bisogna però tenere presente che l’inquinamento dell’aria non dipende solo dal traffico dei veicoli, ma anche da altri fattori, tra questi il riscaldamento domestico e le perturbazioni atmosferiche». A differenza di quello che in generale si tende a pensare, il traffico conta solo per il 10-15%. «Il riscaldamento delle abitazioni incide per il 30-40%. Diventa dunque essenziale cambiare il modo di riscaldare le nostre case, che vuol dire evitare le biomasse, il riscaldamento centralizzato a carbone. Contano molto, poi, le modalità di produzione industriale, di produzione agricola, gli allevamenti intensivi».

Allora, se il contagio ha un legame con la qualità atmosferica, per il nostro futuro diventa indispensabile fare delle scelte e operare dei cambiamenti. «Con il nostro studio noi lanciamo un appello: dobbiamo proteggere il nostro Paese dai rischi. Questo significa che anche le imprese devono impegnarsi per migliorare l’ambiente in cui operano perché così ci saranno meno esposizioni al rischio per la salute, con una ricaduta benefica sulle aziende stesse, che diventeranno più competitive. La parola chiave per il prossimo futuro, da oggi, deve essere resilienza, in termini di lavoro, crescita economica, tutela ambientale e della salute, ricchezza di tempo».

Per realizzare questi obiettivi l’indagine individua tre fattori chiave: «L’economia circolare (rigenerativa ed ecosostenibile), lo smart work e l’ecobonus (detrazione fiscale per ristrutturazioni finalizzate al risparmio energetico) che riduce l’impatto del riscaldamento sulle polveri, diminuisce la bolletta e dà uno stimolo al settore edilizio».

A proposito di incentivazione allo smart work, Becchetti spiega: «Con il ministero dell’Ambiente ora stiamo pensando all’obiettivo di avere tre giorni a settimana di lavoro in casa (smart work), che vorrebbe dire il 60% di traffico in meno. Lo smart work permette di arricchire il nostro tempo perché, eliminando ad esempio il tragitto degl spostamenti casa-lavoro e viceversa, ci consegna un “gruzzolo” di tempo “liberato” di cui possiamo disporre e che possiamo gestire. Ovviamente, si parla di smart work in una condizione di ritorno alla normalità, nella quale questa tipologia di lavoro sarà volontaria, i figli andranno a scuola e ci sarà una serie di servizi, compresi quelli domestici, di cui in questo momento non disponiamo. Lo smart work dopo il Covid, insomma, non sarà quello del lockdown».

Negli Stati Uniti l’Università di Harvard ha effettuato un’indagine analoga ed è arrivata agli stessi risultati. «L’importante è non fare gli struzzi, mettere la testa sotto la sabbia, perché così non si farebbe il bene nazionale. Penso ad esempio a fattori di rischio ambientale e sanitario che non si riducono scoraggiando decisioni di investimento e di insediamento di imprese. Una cosa è certa: economia circolare, ecobonus e smart work favoriscono la produttività e vanno nella nuova direzione della “resilienza trasformativa” (ovvero fanno contemporaneamente più valore economico, più lavoro, ambiente e salute migliori). Sono misure che andranno a vantaggio di tutti».

www.famigliacristiana.it

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