Questo libro, presentato e distribuito nelle librerie da gennaio 2019, ricostruisce per la prima volta, attraverso documenti inediti e testimonianze dirette, l’evoluzione parallela della mafia e dell’industria italiana della difesa. I due mondi sono entrati spesso in contatto: Cosa Nostra è sempre stata consapevole che le armi rappresentano un settore tra i più appetibili economicamente e rilevanti politicamente. La storia raccontata da Alessandro Da Rold, che si apre in un piccolo porto toscano (Talamone in provincia di Grosseto) per chiudersi in un carcere di massima sicurezza lombardo (Opera, a sud di Milano), assume i ritmi di un noir incredibile ma, purtroppo, ben reale. Un noir con due protagonisti, emblematici di due visioni opposte dell’esistenza e del business: la criminalità e la legalità, l’omertà e la trasparenza, il compromesso affaristico senza remore e l’etica professionale senza incertezze. Il primo è Vito Roberto Palazzolo, «uno dei soggetti più pericolosi della comunità criminale internazionale». Il secondo è Francescomaria Tuccillo, avvocato penalista e manager napoletano, ex direttore della regione Africa Subsahariana per Finmeccanica (oggi Leonardo), a lungo considerata insieme a Eni il fiore all’occhiello dell’industria in Italia. I due si incrociano, forse fortuitamente o forse no, in un albergo di Luanda nel 2009, durante un seminario presieduto da un membro del nostro governo dell’epoca. Questo incontro cambia la vita di entrambi e soprattutto rivela come Finmeccanica abbia nascosto per decenni l’ombra di Cosa nostra, rappresentata dalla presenza discreta, dietro alcuni dei suoi affari più lucrosi, di un latitante condannato per mafia da sentenza definitiva della Cassazione e riconosciuto da Falcone in poi come il tesoriere di Totò Riina e Bernardo Provenzano, le «Belve» di Corleone. La vicenda africana che vede coinvolti Tuccillo e Palazzolo è soltanto uno dei molti episodi dell’ampio affresco che un magistrato napoletano ha definito come «l’unitario disegno criminoso del gruppo Finmeccanica».
Un affresco in cui appaiono, in una frenetica successione quasi difficile da seguire, episodi inquietanti e mai interamente chiariti, dove entrano in gioco non solo la criminalità organizzata ma anche le evoluzioni geopolitiche del pianeta e le relazioni tra gli Stati e i loro servizi di intelligence. Basti citare la celebre «mega-tangente indiana», intorno alla quale le indagini stanno oggi conoscendo nuovi sviluppi: i sospetti che gravano su Finmeccanica non sono probabilmente del tutto estranei all’annosa vicenda dei nostri marò, su cui hanno influito. O ancora un progetto di vendita di fregate italiane al Brasile. La gara, il cui ammontare era di oltre 2,5 miliardi di euro, ha visto Finmeccanica, insieme a un’altra grande azienda di Stato, Fincantieri, battersi contro i francesi e ha toccato da vicino le sorti del terrorista italiano Cesare Battisti, rifugiatosi da tempo nel paese latinoamericano dopo una lunga latitanza in Francia. «L’elemento Battisti – afferma un altro magistrato che conosce molto bene gli intrighi noti e secretati del maggior gruppo nazionale di difesa – si inserisce in maniera molto raffinata nel contesto competitivo.» Sono state e sono molte le procure che hanno cercato di dipanare tale perversa matassa in nome della legge, a cominciare da quelle di Palermo e di Napoli. A Palermo la ricerca del latitante Palazzolo, avviata da Giovanni Falcone e durata quasi trent’anni, è stata considerata una sorta di passaggio di testimone tra il giudice ucciso a Capaci e coloro che ne hanno raccolto i faldoni con una dolorosa determinazione che andava ben oltre il puro senso del dovere. A Napoli è toccato invece l’arduo compito di decrittare quello che si può definire il «metodo Finmeccanica»: pur se affidate nel tempo ad altre sedi per ragioni di competenza territoriale, quasi tutte le inchieste che hanno permesso di comprendere come operava il colosso statale della difesa sono state avviate, con grande acume investigativo, nelle stanze della più grande procura d’Italia, quella del centro direzionale partenopeo. Il libro rende volutamente omaggio al lavoro di questi valorosi magistrati del Sud, che hanno permesso di arrestare Palazzolo e, soprattutto, di fare luce sui troppi ingombranti misteri che hanno marcato la vita civile e industriale italiana per decenni. Molti, moltissimi sono stati e sono coloro – rappresentanti delle istituzioni, giornalisti di parte, opinionisti di ogni specie – che lamentano l’ingerenza delle toghe nel campo della politica e dell’economia. È tuttavia fuor di dubbio che la responsabilità delle inchieste contro le quali la politica si scaglia è da attribuirsi sovente alla politica stessa, sempre impegnata ad auto assolversi in nome di un presunto bene più grande e mai critica nei confronti dei tanti che approfittano del suo lassismo o della sua connivenza. Palazzolo ne è un esempio lampante. Per contro, Tuccillo è l’emblema della «persona per bene», come l’ha definito uno dei suoi capi, non sappiamo se con reale ammirazione o con scettica incredulità.
È stato infatti il solo in Finmeccanica, dove molti sapevano, a denunciare la presenza di un mafioso siciliano latitante in luoghi in cui non sarebbe dovuto essere, a fare cose che non avrebbe dovuto fare. Perché ha parlato? Per ingenuità, per temerarietà o per mania di protagonismo? Nessuna delle tre ipotesi è azzeccata. Tuccillo è un avvocato e un manager esperto, dotato di un pensiero strategico rapido e sottile, ai limiti della freddezza. Ha denunciato Palazzolo e le sue presunte connivenze con il gruppo di cui era parte perché convinto che solo il buon lavoro e la competenza possano generare una prosperità reale e durevole nel tempo. La sua scelta, a lungo meditata, gli è costata un prezzo elevato in termini sia personali sia professionali. Purtroppo, ancora oggi, chi denuncia una colpa viene spesso considerato colpevole, in un’inversione di ruoli tanto assurda quanto generalizzata: colpevole di aver rotto equilibri politici o affaristici oscuri, che servono solo a consolidare gli interessi, la ricchezza e il potere di chi li ha ideati. Certamente non a rafforzare un’impresa, la sua capacità di competere, di creare occupazione, di inventare prodotti nuovi e di affermarsi sui mercati, come l’evoluzione di Finmeccanica prova senza incertezze. A distanza di nove anni dall’incontro di Luanda, il gruppo conserva ancora le profonde cicatrici del «disegno criminoso» di cui è stata per anni teatro. Basti citare qualche numero per provarlo: la sua azione in Borsa vale oggi circa 8 euro, a fronte dei 100 di Airbus, dei 116 di Thales, dei 314 di Boeing, suoi omologhi europei e americani. Gli intrighi di corte che l’hanno percorsa per decenni ne hanno ferito profondamente la competitività, le dimensioni, la cultura gestionale, la lungimiranza strategica, le capacità innovative e la volontà di identificare e promuovere il merito, che di tutto il resto è vettore. Quando ci si illude che la corruzione sia il più rapido strumento di crescita, si investe poco e male in quello che fa crescere davvero. Forse se qualcuno, come Francescomaria Tuccillo, avesse parlato prima e provato a lavorare diversamente l’attuale Leonardo sarebbe più competitiva e il nostro paese nel suo complesso più forte e più prospero. Aveva ben ragione chi temeva, più della cattiveria dei malvagi, il silenzio degli onesti.
NOTE BREVI SULL’AUTORE
Alessandro Da Rold (Milano, 1980), cronista, scrive di giudiziaria, economia e politica. Ha lavorato per «Il Riformista», «Lettera43», «Linkiesta» e «La Verità». Per anni si è interessato alle vicende della Lega e nel 2012 ha pubblicato un libro, Lega Spa, un’inchiesta sui conti del partito. Segue da vicino le nostre aziende partecipate, in particolare il colosso petrolifero Eni. Ha scritto spesso anche di servizi segreti e di difesa. E’ stato tra i primi a occuparsi del caso Finmeccanica.
LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO A MILANO
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