di Brigitte Granville, Hans-Olaf Henkel e Stefan Kawalec
Alla vigilia della guerra civile americana, Abraham Lincoln pronunciò la famosa frase “una casa divisa non può stare in piedi.” Oggi, l’Unione Europea – impegnata da decenni alla ricerca di un’ “unione sempre più stretta” – deve confrontarsi con una straziante verità. La massima di Lincoln deve essere letta al contrario. Affinché l’UE possa sopravvivere, l’euro si deve sciogliere.
Tra il trattato di Roma del 1957 e l’Atto unico europeo, del 1986, i governi europei hanno portato avanti la più grande rivoluzione pacifica che il continente abbia mai visto nella sua lunga e travagliata storia. La creazione di una moneta unica europea avrebbe dovuto basarsi su questo notevole successo. Era supposta essere il successivo fondamentale passo verso una maggiore unità e prosperità. La crisi economica nell’Europa meridionale mostra che invece il regime dell’euro, almeno nella sua forma attuale, è diventato una minaccia mortale per entrambi questi obiettivi.
Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e Cipro sono intrappolati nella recessione e non possono riconquistare la competitività svalutando le loro monete. Le economie del nord della zona euro hanno dovuto partecipare a ripetuti salvataggi mettendo da parte ogni principio di finanza prudente. Un circolo vizioso di risentimento e populismo a sud e un rafforzamento del nazionalismo a nord stanno lacerando l’unione.
E la crisi non è ancora finita. La Francia, la seconda economia più grande d’Europa, sta sprofondando in una grave crisi economica. Come i paesi del sud, deve riguadagnare competitività, ma come loro, essendo parte del sistema dell’euro, manca dello strumento necessario. A causa delle sue dimensioni e per il ruolo guida che ha avuto nell’evoluzione dell’UE, la Francia, come sosteniamo nella parte 2 di questo articolo, sarà fondamentale per spezzare il circolo vizioso.
GAP DI COMPETITIVITA‘
Prima, però, che cosa è andato storto? La moneta unica europea si supponeva dovesse facilitare il funzionamento dell’economia europea. Con la fissazione del tasso di cambio nominale e l’eliminazione del rischio di cambio, l’euro avrebbe dovuto realizzare la convergenza tra le economie più forti e quelle più deboli dell’eurozona – il cosiddetto centro e periferia. Il capitale sarebbe fluito dai paesi in surplus nei conti con l’estero verso i paesi nella necessità di prendere in prestito, aumentando la produttività e la crescita.
La realtà è stata diversa. La moneta unica ha fissato – anzi, ha peggiorato – il divario di competitività causato dalle differenze nei tassi di inflazione e nei costi unitari del lavoro. Gli squilibri esteri sono cresciuti. Nel 1999-2011, i costi unitari del lavoro (le retribuzioni per unità di prodotto) in Grecia, Spagna, Portogallo e Francia sono aumentati rispetto alla Germania dal 19 al 26 per cento.
Nei paesi meno competitivi, questo ha prodotto dei deficit delle partite correnti dal 2 al 10 per cento del prodotto interno lordo nel 2010, e un avanzo delle partite correnti in Germania del 6 per cento del PIL. Avendo escluso la possibilità di svalutare, questi squilibri possono essere affrontati solo in due modi – o con la “svalutazione interna” o attraverso trasferimenti transfrontalieri.
Svalutazione interna significa che i paesi in deficit cercano di riguadagnare competitività attraverso la riduzione della spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale, che sperano possa abbassare i prezzi e i salari in crescita. L’effetto a breve termine sarà quello di indebolire la domanda interna.
A meno che non vi sia una compensazione derivante dall’aumento della domanda estera – con i paesi in surplus, in particolare la Germania, che intraprendono una politica di stimolo che aumenti un po’ l’inflazione – un’ “austerità” di questo tipo metterà a repentaglio la crescita economica e, quindi, le finanze pubbliche dei paesi in deficit. Tuttavia, non vi è alcuna prospettiva che la Germania – insieme agli altri paesi economicamente simili nella zona nord dell’euro – possa accettare di attuare un tale stimolo, in quanto ciò sarebbe in contrasto con la sua cultura politica ed economica. Ciò farà aumentare i dubbi sulla sostenibilità finanziaria del debito pubblico dei paesi in deficit e sulla sostenibilità politica delle loro politiche di svalutazione interna.
L’ESEMPIO DELLA LETTONIA
La Lettonia e l’Islanda dimostrano come possono essere pesanti i costi economici e sociali della svalutazione interna, rispetto ai costi di una svalutazione esterna, o del cambio. Dal 2008 al 2010, il PIL in Islanda è diminuito solo della metà (svalutazione esterna) di quanto è diminuito in Lettonia (svalutazione interna).
L’occupazione è scesa del 5 per cento in Islanda contro il 17 per cento in Lettonia. I sostenitori dell’euro possono anche dire che la svalutazione interna sta cominciando a funzionare – nei paesi in crisi dell’eurozona come la Grecia i salari reali hanno iniziato a diminuire rapidamente e le riforme strutturali hanno cominciato ad aumentare la produttività. Tuttavia, non è chiaro se la tolleranza politica della Lettonia per il collasso della produzione, dell’occupazione e dei redditi può essere riprodotta anche altrove.
L’alternativa principale sono i trasferimenti. I paesi in deficit possono attutire la loro contrazione con dei trasferimenti dai paesi in surplus, invece che con la svalutazione interna. Il problema è che tali trasferimenti non saranno più indolori.
Prima del 2008, essi hanno assunto la forma di prestiti privati transfrontalieri ai governi e alle banche, che in molti casi hanno preso in prestito i soldi offrendo immobili come garanzia. Da quando nel 2008 è scoppiata la bolla del credito, questi flussi finanziari privati sono stati sostituiti da trasferimenti dai bilanci statali, che hanno fatto lievitare i deficit di bilancio e le passività implicite dei Paesi periferici nel sistema dei pagamenti della Banca Centrale Europea (noto come Target2). Senza i trasferimenti dalla Germania e dagli altri paesi del nord, la posizione fiscale di molte economie non competitive della zona euro è diventata insostenibile.
Tali trasferimenti proverranno dal denaro dei contribuenti – fornito sia direttamente attraverso il Meccanismo Europeo di Stabilità, sia indirettamente attraverso le banche dei paesi creditori. (Nel caso che le banche creditrici dovessero accettare qualche forma di ristrutturazione del debito sovrano, le banche dovranno essere ricapitalizzate con denaro fornito dai contribuenti nei paesi di origine.)
Questa prospettiva è dinamite politica. Quindi tali trasferimenti sono subordinati a una rigorosa disciplina di bilancio e alle riforme strutturali. Nonostante le rigide condizionalità, i contribuenti / elettori nei paesi creditori come la Germania potrebbero non adattarsi mai all’idea, creando il rischio di una reazione anti-europea. Una reazione del genere diventerebbe una certezza nel caso fin troppo probabile che le regole venissero trasgredite o messe da parte.
STAMPARE MONETA
Molti governi dei paesi debitori preferirebbero avere dei trasferimenti sotto forma di denaro stampato dalla BCE – con minori, eventuali, limiti. I funzionari francesi l’hanno detto esplicitamente. Ma il meglio che possono sperare sono gli acquisti di titoli di Stato a breve termine da parte della BCE (note come outright monetary transactions). Se dovessero essere attuati, questi saranno soggetti alle stesse rigide condizioni fiscali applicate ai trasferimenti dal MES.
Quindi, le prospettive per i Paesi debitori della zona euro sono di un inasprimento fiscale implacabile e di anni di domanda carente. Ciò si tradurrà in una contrazione o, nella migliore delle ipotesi, una stagnazione della produzione e degli standard di vita. Nel frattempo, sta crescendo il sentimento anti-UE e in particolare anti-tedesco – come dimostrano le scene per le strade di Nicosia dopo la crisi di Cipro.
Gli Stati Uniti d’Europa potrebbero salvare la situazione? Alcuni tra i primi fautori dell’euro hanno riconosciuto alla fine degli anni ’90 che il progetto comportava che “l’economia doveva guidare la politica.” Essi vedevano la moneta unica come un modo per mettere il continente su un percorso irreversibile verso una piena unione politica – un obiettivo che gli elettori europei avrebbero rifiutato se gli fosse stato chiesto in maniera diretta.
Una maggiore mobilità del lavoro potrebbe essere uno degli elementi di questa unione. Si potrebbero immaginare le popolazioni dei paesi depressi come la Grecia, il Portogallo, la Spagna e l’Italia, emigrare verso i paesi ricchi come la Germania e la Finlandia. In questo scenario, interi paesi potrebbero finire per somigliare a delle spopolate regioni rurali – come quelle regioni della Francia, negli anni del dopoguerra, che i giovani ben istruiti abbandonavano in massa spostandosi verso le città e lasciando dietro di sé una popolazione invecchiata, pesantemente dipendente dalle assicurazioni sociali. Le barriere linguistiche e culturali rendono comunque improbabile questa forma di aggiustamento economico.
Invece, gli appassionati dell’euro puntano le loro speranze su una unione fiscale. I trasferimenti dovrebbero prendere il posto delle migrazioni – e un nuovo quadro di responsabilità politica dovrebbe prevenire gli abusi (il cosiddetto problema del free-rider) e gestire le tensioni. Purtroppo, anche se questo sarebbe possibile, le divergenze di competitività rimarrebbero.
Consideriamo i casi della Germania orientale e del sud Italia. Nella riunificazione tedesca del 1990, i salari della ex Germania orientale sono stati convertiti in marchi tedeschi 1-a-1, abbattendo in un colpo solo la competitività della Germania orientale.
TRASFERIMENTI TEDESCHI
In ciascuno degli anni seguenti la riunificazione, la Germania orientale ha ricevuto trasferimenti per il 4 per cento del PIL tedesco. Eppure la convergenza non c’è stata – persone giovani e istruite continuano a migrare verso la Germania occidentale. Nemmeno nel Sud Italia c’è stata convergenza, nonostante decenni di trasferimenti. La disoccupazione è il doppio di quella del Nord Italia, e il PIL privato pro capite è meno della metà.
E poi c’è la politica. I paesi non competitivi dell’eurozona non possono sperare di ricevere trasferimenti del valore del 25 per cento del loro PIL ogni anno, come la Germania orientale, o anche del 16 per cento del PIL, come nel sud Italia.
Qualcosa deve cedere – e dovrà essere il sistema dell’euro. Per preservare l’Unione europea, l’Unione monetaria deve essere smantellata. Il parallelo storico fin troppo rilevante è la difesa del gold standard nel periodo tra le due guerre, che arrivò quasi a distruggere la democrazia in tutto il mondo. Un solo paese può plausibilmente prendere l’iniziativa a favore di una divisione controllata del sistema dell’euro per mezzo di un’uscita comune e concordata dei paesi più competitivi. Questo paese è la Francia.
Ancora una volta, come avremo modo di spiegare nella parte 2, il destino dell’Europa è nelle mani delle élite francesi. In linea con le sue migliori tradizioni politiche della “Fraternité”, la Francia dovrebbe promuovere una nuova strategia nel segno non del nazionalismo, ma di una solidarietà europea.
Una divisione del sistema dell’euro sarebbe nel migliore interesse sia della Francia che dell’Europa, perché accelerebbe il ritorno alla crescita economica dell’UE – l’unica sicura garanzia di stabilità e unità europea.
Fonte: http://www.bloomberg.com/news/2013-05-14/save-europe-split-the-euro.html.
Traduzione: http://www.vincitorievinti.com/2013 /05/salviamo-leuropa-sciogliamo-leuro.html #. UZ8VuWQW5DQ.facebook)