A cura di Alessandro Corneli
Il sito online del settimanale francese Le Point (7-8 maggio 2013) ha pubblicato un’intervista con Eric Vernier, specialista nel campo del riciclaggio del denaro e autore di un volume appena pubblicato e intitolatoTechniques de blanchiment et moyens de lutte (Dunod, 2013). L’intervista prende spunto da uno studio pubblicato dalla società di carte di credito Visa, secondo il quale il peso dell’economia parallela (lavoro in nero, transazioni legali non dichiarate) sarebbe diminuito in Europa dal 19% del Pil nel 2011 al 12% del Pil nel 2012 e la sua riduzione proseguirebbe anche nel 2013 nonostante la congiuntura economica negativa che spinge a moltiplicare le attività economiche non dichiarate.
Vernier, nell’intervista, si dichiara sbalordito dai dati forniti dallo studio del gruppo Visa, affermando che è difficile dare delle cifre esatte in un settore che per definizione è difficile da quantificare, anche se è possibile rilevare alcune tendenze. Secondo dati comunemente accettati, il lavoro nero e le transazioni non dichiarate girano intorno a 5mila miliardi di dollari all’anno in tutto il mondo. Lo studio del gruppo Visa non prende in considerazione la cifra d’affari della droga, della criminalità organizzata e del traffico di organi, che rappresentano una percentuale importante.
Offre poi alcuni dati relativi alla Francia, secondo i quali il 10% del Pil deriverebbe dall’economia sommersa. (In Italia è al 20% del Pil, pari a circa 350 miliardi di euro all’anno). Ma, si chiede, questo significa forse che il restante 90% è a posto? Niente affatto. Per due motivi : poiché sono troppo pochi i controllori e perché la lotta contro le frodi al fisco è decisa a livello politico : colpire più un settore e meno un altro. Inoltre, non sono solo i disoccupati e i precari a fare ricorso al lavoro nero. Ci sono pensionati che vogliono arrotondare la pensione, e lo stesso per alcuni lavoratori. Il lavoro sommerso è molto più esteso di quanto si crede. Poi ci sono le imprese che fanno ricorso al lavoro in nero, spesso con lavoratori stranieri, sans papiers. Accade che su 50 lavoratori, 30 siano in nero. Naturalmente lo Stato ci perde in entrate fiscali e ritenute previdenziali,ma il denaro guadagnato in nero viene speso nell’economia reale e parecchie transazioni non avverrebbero se dovessero essere dichiarate.
Sul dato della riduzione dell’economia sommersa, Vernier afferma che se il lavoro in nero diminuisce, è perché il lavoro nel suo complesso diminuisce. Anche l’economia parallela segue la congiuntura e non bisogna pensare a un ravvedimento di chi opera in questo modo a causa di una presa di coscienza civile. La lotta all’evasione fiscale è importante, gli annunci sono interessanti, ma è troppo presto per pronunciarsi. Possiamo riorganizzare l’amministrazione, le regole per il pagamento delle tasse e rafforzare i mezzi di lotta contro la frode, ma ci sarà sempre un limite al di sotto del quale non è possibile scendere. Sarebbe utile, ma non possibile.
Se questo viene detto della Francia e sulla Francia, che ha una tradizione amministrativa di efficienza alla quale l’Irtalia non si può paragonare, e se, comunque, l’economia sommersa rappresenta in tutta Europa una quota di Pil non indifferente, è solo grazie a un ripensamento generale dell’attività economica, dei sistemi fiscali, dei controlli e del ruolo dello Stato che si può pensare di ridurre il fenomeno a dimensioni accettabili, partendo anche dal principio che l’austerità non va in questa direzione.
Per avere un’idea della complessità del fenomeno – contro chi prospetta soluzioni facili – è opportuno riferirsi a studi sistematici, dai quali risulta che il fenomeno si presenta, con variazioni percentuali tra paesi e territori, dal punto di vista delle imprese, in modo differenziato tra:
– imprese trasgressive, del tutto visibili e conformi alle principali incombenze normative, ma con una elevata propensione ad organizzare evasione ed elusione fiscale e contributiva, a forzare l’utilizzo degli strumenti di flessibilità lavorativa e l’out-sourcing, a praticare sistemi di retribuzione non conformi a quella reale;
– imprese minimaliste, che rispettano al minimo i requisiti di regolarità (come iscrizione al registro ditte, posizione fiscale e previdenziale) ma utilizzano una quota degli occupati totalmente in nero, con un diffuso occultamento fiscale, con una copertura parziale, e spesso solo formale, dei diversi obblighi connaturati a una corretta attività produttiva;
– imprese mimetiche, generalmente di piccole dimensioni, attorno ai 5-10 addetti, totalmente sommerse, anche grazie al tipo di attività (servizi, edilizia) che non impone una sede visibile;
– il formicaio, micro imprese o unità di lavoro individuali, con o senza partita IVA, in settori che per tipo di domanda (lavoro domestico o di cura presso famiglie) o contenuti del servizio (nuove tecnologie, attività professionali etc.) possono fruire di un elevato grado di nascondimento.
Dal punto di vista del mercato del lavoro, si trovano le seguenti categorie:
– lavoratori regolari, che svolgono prestazioni in nero, in forma autonoma o subordinata, come seconda attività nello stesso ambito lavorativo o in diverso settore/ unità produttiva;
– occupati alle dipendenze con condizioni minime di regolarità, ma con gran parte delle prestazioni non registrate sia ai fini fiscali che contributivi (straordinari, premi etc.);
– lavoratori con contratti atipici o soci in cooperative di comodo, le cui forme contrattuali eludono l’effettiva condizione di occupati alle dipendenze;
– dipendenti che accettano retribuzioni inferiori a quelle dichiarate;
– lavoratori autonomi e professionisti irregolari;
– dipendenti totalmente irregolari (non dichiarati, con retribuzioni totalmente in nero);
– immigrati irregolari.