di Alessandro Corneli
Posto che l’antipolitica è il brodo in cui si sviluppa la tecnocrazia, e la tecnocrazia è il sistema nel quale “è vietato disturbare il manovratore”, mentre la dittatura è il sistema nel quale “è obbligatorio applaudire il manovratore”, c’è da chiedersi se il Corriere della Sera stia alimentando il brodo.
Il sospetto viene dalla lettura dei due articoli più importanti apparsi domenica 20 gennaio: l’articolo di fondo di Beppe Severgnini e il commento di Gian Arturo Ferrari nella pagina delle “Idee&opinioni” (p. 30).
Severgnini attacca in maniera irridente, sarcastica: “Nessuno potrà accusare il futuro governo di non aver mantenuto le promesse verso i giovani italiani: perché queste promesse nemmeno sono state fatte. I nuovi elettori, almeno fino a oggi, sono i grandi esclusi dalla campagna elettorale”.
Ricordato che la disoccupazione giovanile (15-24 anni) tra chi cerca un lavoro è al 37%, mai così alta dal 1992, il noto giornalista afferma che “i proclami giovanilistici del governo Monti si sono ridotti alla reintroduzione dell’apprendistato e a un’Agenda digitale di difficile applicazione”. Conclusione: “Gli italiani di meno di trent’anni stanno diventando una generazione trasparente” e, per loro, “la bulimia televisiva degli stagionati protagonisti – Silvio Berlusconi 63 ore, Mario Monti 62 ore, Pier Luigi Bersani 28 ore (dal 2 dicembre al 14 gennaio) – rischia di diventare una provocazione”.
Come dargli torto? Ma i giovani e i meno giovani che hanno letto questo articolo, che cosa devono pensare? Che ha ragione Beppe Grillo?
Gli interrogativi dei lettori aumentano leggendo Ferrari, che analizza la campagna elettorale dei tre principali protagonisti: un divertissement nel quale paragona Bersani a Jean Valjan, il protagonista de I Miserabili di Victor Hugo, Berlusconi a Mauriche Chevalier (cantante, cabarettista), e Mario Monti – di scuola anglosassone mentre gli altri due sono di scuola francese – al personaggio di Smiley dello scrittore John Le Carré.
Se ne ricava l’immagine non di leader politici portatori di progetti politici ma di “maschere”, attori che recitano.
C’è del vero, anche in questo caso, ma un giornalismo d’informazione – non di sola cronaca politica – di questo livello potrebbe andare un po’ più a fondo. Altrimenti apparirà chiaro che la politica, tutta la politica, è spettacolo. E bisognerà procedere a classificare il Corriere sotto altra rubrica giornalistica.