Pace è uno di quei concetti che di norma vengono definiti in negativo: è assenza di conflitto, è non-guerra. Un errore culturale gravissimo per lo storico Carlo Vallauri, che anzi sulla pace “in positivo” ha appena dato alle stampe il suo ponderoso L’arco della pace. Movimenti e istituzioni contro la violenza e per i diritti umani tra Ottocento e Novecento (in tre volumi; Ediesse, pagine 1808, euro 50,00).
Ribaltando la logica dei Romani, quella del «Si vis pacem, para bellum» (“Se vuoi la pace, prepara la guerra”), Vallauri – una lunga carriera accademica dedicata alla storia e alla sociologia politica tra la Sapienza e la Luiss di Roma e l’Università per stranieri di Siena – argomenta: «È sbagliato ridurre la pace all’auspicio che le nazioni non si aggrediscano le une con le altre. Al contrario, la pace riguarda in positivo la condizione di ogni individuo all’interno del proprio Stato».
In che senso, professor Vallauri?
«Prendiamo a esempio gli Stati totalitari tra le due guerre mondiali, come l’Unione Sovietica: senza il rispetto dei diritti umani elementari, ai cittadini mancava l’esperienza fondamentale anche solo per concepirla, la pace. Quando un cittadino è indifeso davanti allo Stato, allora c’è già una situazione di guerra; l’Unione Sovietica predicava la “pace” nel mondo e negava i diritti fondamentali al proprio interno. Però pace non è solo assenza di guerra tra i popoli, è anche creare le condizioni per la democrazia».
Il pensiero corre immediatamente alle recenti rivolte nel mondo arabo…
«Sì, è un accostamento corretto. La cosiddetta Primavera araba ha mostrato che prima di tutto viene la richiesta di libertà individuale, di autonomia, di capacità di scelta. Quella degli ultimi mesi è stata sostanzialmente una stagione positiva, una svolta per il Mediterraneo, nonostante le complicazioni che ne sono derivate».
Come la guerra aperta combattuta in Libia?
«Io mi sono schierato fin dall’inizio contro la partecipazione dell’Italia alle operazioni militari. Le Nazioni Unite hanno sbagliato a non considerare nessuna alternativa alla guerra per risolvere il problema libico».
Quale dovrebbe essere il ruolo della comunità internazionale in simili situazioni?
«La comunità internazionale… Il problema è che è composta da Stati che si osteggiano fra loro. Ma la realtà sotto gli occhi di tutti è che quando manca la democrazia, cioè la tutela dei diritti umani, allora c’è di per sé una condizione di guerra. È quindi essenziale che si affermi la democrazia come priorità internazionale; gli Stati non possono disinteressarsi di quel che accade in altri Paesi, come invece adesso stiamo facendo con la Siria».
“Esportare le democrazia” si è dimostrato essere un percorso scivoloso…
«Certo, se lo si fa con la guerra, una contraddizione in termini. Altri devono essere gli strumenti: prima di tutto viene l’educazione alla pace».
Quello che lei ha fatto come membro della commissione Unesco incaricata di «promuovere nei manuali scolastici la conoscenza e il valore del rispetto dei diritti umani, della cooperazione internazionale e dell’educazione alla pace»?
«Esatto. All’Unesco verificammo che in effetti nei testi scolastici erano molto rari gli accenni alla necessità della pace e si dava per scontato che ci fossero le guerre. Al contrario noi proponemmo, soprattutto agli Stati che dovevano ancora costruire la propria organizzazione scolastica, una serie di documenti utili per impostare l’educazione alla pace. Io suggerii la Pacem in Terris, che era stata appena pubblicata da Giovanni XXIII: curiosamente a opporsi non furono i rappresentanti sovietici, ma quello della Germania Orientale. Non tollerava alcun cenno, nemmeno indiretto, al nazismo».
Il suo lavoro in effetti è ricco di richiami al ruolo svolto dalle religioni nella costruzione della pace…
«Io sono di formazione cattolica. Ma, a parte questo, scrivendo da italiano un libro sulla pace non potevo non dare alla Chiesa il rilievo dovuto. Al di là di qualche passaggio critico, l’apporto della Chiesa per la pace è stato fondamentale. Per esempio, dobbiamo ricordare l’importanza ricoperta, fin dagli anni Venti, dal grande rilancio dello spirito ecumenico, con un gran numero di convegni. Un impegno che non solo non è più venuto meno, ma che anzi con il passare del tempo si è sempre più radicato e ampliato».