Negli ultimi decenni “i cattolici sono stati più rilevanti e incisivi come elettori” che come “elaboratori di offerta politica”. Un gap da “colmare”. Lo afferma in un’intervista al SIR Luca Diotallevi, docente di sociologia presso l’Università di Roma Tre. Politologo e vicepresidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, Diotallevi è autore del volume “L’ultima chance. Per una generazione nuova di cattolici in politica” (ed. Rubbettino) presentato ieri a Roma e in libreria nei prossimi giorni.
A poco più di un anno dalla 46ª Settimana Sociale lei parla di “ultima chance” per i cattolici. Perché “ultima”?
“Ultima anzitutto perché ‘la più recente’, quella che abbiamo ora di fronte. Ma ultima anche perché, se non venisse colta in modo adeguato, potrebbe essere seguita da uno scompaginamento – se non definitivo – molto probabilmente di lunga durata di ogni cattolicesimo politico italiano. Ciò non è senza rilievo. Per il Paese in primo luogo. Perché i cattolici hanno finora garantito alla sua fragile democrazia la più ampia base di consenso. Per la Chiesa italiana. Perché un laicato protagonista in politica (non importa in quante e quali forme) aiuta e conforta l’episcopato a occuparsi delle sue funzioni proprie, senza dover accedere a supplenze più o meno estese, a volte resesi indispensabili ma non per questo prive di costi. Cogliere quest’ultima chance non è poi privo di rilievo neppure per la Chiesa universale, perché un maturo cattolicesimo politico italiano ha contribuito in modo significativo a donare alla Chiesa universale una migliore coscienza del rapporto tra fede e politica nella modernità, tra Chiesa e politica e tra episcopato e politica”.
In questo momento di crisi e di sfide gravi e urgenti che il nostro Paese è chiamato ad affrontare esistono le premesse e le condizioni per una “nuova generazione” di cattolici in politica, come più volte auspicato da Benedetto XVI e dal card. Bagnasco?
“Certamente sì, anche se fanno fatica a emergere. A volte prendono il vicolo cieco di modelli clerico-moderati o neogentiloniani (dal ‘patto Gentiloni’, accordo stipulato tra i liberali di Giovanni Giolitti e l’Unione elettorale cattolica italiana presieduta da Vincenzo Ottorino Gentiloni per le elezioni politiche del 1913, che segnò l’ingresso ufficiale dei cattolici nella vita politica italiana, ndr) invece che le vie maestre tracciate da Sturzo, De Gasperi e dalla ‘Dignitatis humanae’”.
Il Papa chiede responsabilità e impegno per il bene comune. Ma il perseguimento del “bene comune” può essere delegato in via esclusiva alla politica?
“Assolutamente no. Il fine della politica è quello di un contributo limitato, specifico e responsabile al bene comune. Che di volta in volta viene definito ‘ordine pubblico’ o ‘pace’ (come pace possibile e conflitto regolato). Quest’ultimo, ad esempio, è il termine che Benedetto XVI ha usato di recente nel suo intervento al Bundestag”.
Lei sostiene la necessità di grandi riforme e, al tempo stesso, la mancanza di riformatori. A quali riforme allude, in particolare?
“A tutte quelle che ci aiutano ad essere protagonisti – e non vittime – dell’irreversibile e positiva fuoriuscita dall’era e dal regime degli Stati. Si tratta delle riforme che fanno la politica più piccola e migliore, meglio sottoposta al giudizio dei cittadini-elettori-contribuenti”.
Le sembra che negli ultimi decenni i cattolici abbiano fatto “la loro parte” per il progresso civile, economico e sociale dell’Italia?
“Senz’altro, anche se in politica ciò è avvenuto in misura minore rispetto a quanto si è verificato in altri ambiti sociali. Il punto è colmare questo gap. In particolare, poi, i cattolici sono stati più rilevanti e incisivi come elettori, dunque sul lato della domanda politica, che come elaboratori di offerta politica. Questo è il vero punto”.
Come se lo spiega?
“Credo che il motivo principale risieda proprio nel cambiamento della stagione politica. I cattolici avevano dato alla prima repubblica; da quella stagione sono stati inevitabilmente formati, politicamente parlando. Ora però la politica ha cambiato grammatica e sintassi, e i cattolici ci hanno messo un po’ ad accorgersene. Nostalgia del sistema proporzionale, fughe nell’inutile ruolo di indipendenti (di destra, di centro o di sinistra) o reflussi di clericalismo sono sintomi di questa fatica ad elaborare cultura politica adeguata al cambiamento. Non poteva certo essere opera di un attimo, ma forse ci abbiamo messo un po’ troppo tempo. Anche perché, e questa è la sorprendente novità, rispetto a cento anni fa il magistero sociale della Chiesa (da Montini a Ratzinger, attraverso Wojtyla), è oggi più aggiornato della cultura politica media del laicato cattolico. Non abbiamo proprio scuse…”.
Oggi grandi figure come don Sturzo o De Gasperi “parlano” ancora ai cattolici?
“Il ‘popolarismo’ loro e di tanti che si sono mossi sulla loro scia (Andreatta, Ruffilli, Scoppola, Biagi) rappresenta un ingrediente essenziale per l’elaborazione di un nuovo riformismo d’ispirazione cristiana, adeguato alle sfide di oggi e capace di alleanza con altri riformismi”.
Guardando alla strettissima attualità: un “governo tecnico” di “civil servants” senza precedenti quello di Monti, definito il 17 novembre dallo stesso Monti “d’impegno nazionale”. Ma anche un “governo del presidente” (ruolo decisivo del capo dello Stato) e di “grande coalizione”. Segno della “crisi” dei partiti e dell’incapacità/inadeguatezza della politica a fronteggiare la crisi attuale?
“Spero faccia bene e soprattutto presto. Ma non possiamo smettere di lavorare perché la politica si rinnovi e consenta di tornare a maggioranze e capi di esecutivi chiariti prima del voto e decisi dall’esito dei voti. E qui ritorno al riformismo, combinazione d’intelligenza delle cose, fiducia e responsabilità democratica. Intelligenza delle cose perché è rifiuto dell’ideologia; fiducia perché spinge a coprire il tempo che passa dal momento in cui partono le riforme, spesso costose e dolorose, al momento in cui si sperimentano i primi risultati. I riformisti, inoltre, credono profondamente che la competizione politica e la responsabilità democratica siano insostituibili; non possono rassegnarsi a soluzioni di cosiddetti ‘governi tecnici’. Per quanto competenti siano le persone che li compongono, questi non sono altro che governi politici alla base della cui formazione vi è in misura molto modesta il peso del processo democratico”. Sir