Il caso di Enzo Tortora evoca sentimenti comuni forti che chiedono Giustizia attraverso una riorganizzazione del suo sistema. Sarà un cammino lungo, molto più di quello auspicato, ma alla fine, anche grazie all’Innovazione Tecnologica, sarà sempre più difficile credere ad un infame che accusa una persona onesta e per bene. Perché chi accusa ingiustamente non è solo un calunniatore ma antropologicamente parlando, un “infame”, un “indegno”. Su questa categoria di persone , gli infami, la Giustizia ha istituito troppo stesso il suo percorso erogando molto più di quanto ha ottenuto.
Proviamo ad immaginare un vero divo della televisione che non accetta di invitare il parente di un camorrista nel suo programma. E’ fatta: tizio dal carcere ne parla male, la notizia cammina, arriva dove deve arrivare e il gioco è fatto. Nel processo, da sempre, chiunque può farsi gioco della Giustizia a partire da chi l’amministra. Falsi testimoni, minacce, cospirazioni e accordi finanziari, giochi di potere, scambio di favori, sono quella parte invisibile del Processo che pura gli danno forma. E l’Istituto della Difesa, quando è così, non ha strumenti per sovvertire le sorti del giudizio.
Al caso di Enzo Tortora oggi se ne uniscono di ancora più clamorosi.
Ad esempio il caso di Fabio Gallo perseguitato ingiustamente dal Procuratore della Repubblica di Cosenza Alfredo Serafini che, ritenendosi calunniato e diffamato da un articolo nel quale il Giornalista del Mattino di Napoli Roberto Ormanni pubblicò il punto di vista di Fabio Gallo su una vicenda giudiziaria assai discussa e farcita di lobby e minacce di ogni tipo, tentò in tutti i modi di ottenere un giudizio negativo su Gallo in qualche Tribunale d’Italia (senza riuscirvi mai), usando il suo Ufficio di Capo della Procura della Repubblica, per porre in essere una vera e propria ritorsione senza precedenti nella vita giudiziaria di un Magistrato. Il Procuratore Alfredo Serafini tentò, infatti, di trascinare Fabio Gallo, senza mai riuscirvi, in una enorme quantità di processi.
Il Parlamenare.it
Milano – Ottocentocinquantasei ordini di cattura, un primato. Furono spiccati dalla procura di Napoli il 17 giugno 1983, un venerdì. Qualcuno parlò di “venerdì nero per la camorra”. In manette finì anche Enzo Tortora. Nel libro “Come volevano le stelle” (Seneca Edizioni) l’autrice Maria Rita Stiglich ripercorre le tappe di quella triste vicenda di ordinaria ingiustizia narrando l’amicizia tra una giovane donna, Giulia, e il giornalista incarcerato. Un’amicizia nata da un segnalibro, un piccolo pensiero che la donna spedì in carcere a Tortora nel giorno del suo compleanno. Li accomunava la passione per i libri e la conoscenza di Francesca, collega di Giulia. Tortora amava i libri, erano parte della sua vita. In “Cara Italia ti scrivo” scrisse: “Ecco la mia droga”. Parlava delle poesie di Rimbaud, delle commedie di Pirandello, i romanzi di Balzac, Zola e Laclos.
“Cinico mercante di morte” Dalle colonne del Giornale Montanelli parlò di “imputazione inverosimile”. Una vignetta di Repubblica, invece, ritrasse il presentatore di Portobello dietro le sbarre con le parole nella nuvoletta: “Eppure il pappagallo non ha parlato”. Qualcuno non perse occasione per affibbiare al noto giornalista l’infamante etichetta del camorrista spacciatore di droga senza neanche attendere il processo. La stampa, come tutto il Paese, si divise in due partiti: innocentisti e colpevolisti. A dare corpo e sostanza all’inchiesta c’erano solo le accuse di un gruppo di pentiti. Il 14 gennaio 1986 arrivò la sentenza di condanna: duecentosessantasette pagine nelle quali si leggevano le motivazioni in base alle quali Tortora veniva condannato per associazione a delinquere di stampo camorristico e spaccio di stupefacenti. Una delle frasi vergate dai giudici nella sentenza lascia sgomenti, nonostante siano trascorsi ormai quasi ventitre anni: “Cinico mercante di morte, tanto più pernicioso sotto una maschera tutta cortesia e savoir faire”.
L’impegno politico per la giustizia giusta Eletto al parlamento europeo nel 1984, nelle liste del Partito radicale, Tortora portò avanti la sua battaglia per l’affermazione del principio del giusto processo, la certezza del diritto e la responsabilità civile dei magistrati. Battaglie dal sapore garantista, battaglie di civiltà contro la barbarie il cui apice era rappresentato dalla vicenda giudiziaria che aveva coinvolto – stravolgendola – la vita del noto giornalista. Ma smentì chi faceva facili ironie accostando il suo nome a quello di un altro Vip che, una volte eletto si era dileguato (Toni Negri). Tortora, infatti, non esitò un istante a dimettersi da Strasburgo. Lo fece il 31 dicembre 1985, rinunciando così, caso più unico che raro, all’immunità parlamentare.
Il ritorno alla normalità Tortora fu assolto definitivamente dalla Corte di Cassazione il 17 giugno 1987, a quattro anni esatti dall’arresto. Dopo pochi mesi riprese in mano la sua vita. E lo fece con un memorabile discorso, subito dopo la sigla di Portobello. “Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche. Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo “grazie” a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L’ho detto, e un’altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo so anche, per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi; sarò qui, resterò qui, anche per loro. Ed ora cominciamo, come facevamo esattamente una volta”.
Il Giornale.it
Come volevano le stelle
Enzo Tortora: giustizia dimenticata
Maria Rita Stiglich
Seneca Edizioni