Il Parlamentare.it: di Roberto Ormanni – Un colpo di coda del vecchio governo rischia di mandare in frantumi i delicati equilibri della sanità in carcere. Si chiama riforma della medicina penitenziaria: una rivoluzione organizzativa che riguarda oltre duecento penitenziari, in tutto il paese, centinaia di medici e più di cinquantamila detenuti, che è stata ripescata dalla Finanziaria 2008.
Nei giorni scorsi la Conferenza Stato-Regioni (l’organismo dove l’amministrazione centrale, d’accordo con quelle regionali, mette a punto il “passaggio di consegne” di attività che non gestisce più direttamente lo Stato ma vengono affidate alle Regioni) ha dato il via libera al protocollo di attuazione della nuova legge. Una decisione che ha suscitato più preoccupazioni che apprezzamenti.
Da quasi dieci anni un decreto legislativo prevede che i medici che lavorano all’interno dei penitenziari italiani non debbano più essere pagati dal ministero della Giustizia, ma da quello della Sanità. Detta così sarebbe del tutto normale, anzi risulta difficile capire perché la salute dei detenuti non debba essere affidata alla stessa amministrazione che si occupa di tutti gli altri cittadini. Viene da chiedersi però – anche – perché, nonostante la legge sia del 1999 (il Dlgs numero 230), fino ad oggi non è mai stata applicata.
La riforma dovrebbe garantire una migliore assistenza sanitaria a tutti i detenuti. Nella pratica, sono in molti ad avere forti dubbi.
I primi a protestare sono stati i rappresentanti dell’Associazione degli Psicologi. Attualmente, negli istituti di pena d’Italia, sono poco meno di 500 gli psicologi che si occupano dell’osservazione e del trattamento dei detenuti che ne hanno bisogno. “Con la riforma – dicono all’Associazione – passeranno dai 480 di oggi a 16 unità. Sedici persone per un’utenza complessiva di circa 50mila detenuti e la riabilitazione psico-sociale sarà impossibile”.
Le cure psicologiche, spiegano, si limiteranno semplicemente all’ “osservazione” del detenuto senza poter effettuare alcun trattamento.
Dei quasi 500 psicologi che lavorano in carcere, distribuiti tra il cosiddetto “servizio nuovi giunti” (il primo ingresso dei detenuti) e la successiva attività di osservazione e trattamento, sono infatti soltanto 16 quelli di ruolo, ossia assunti a tempo pieno e non con un contratto annuale, che passeranno automaticamente in carico alle Unità sanitarie locali diventando dipendenti del ministero della Sanità.
Per tutti gli altri il passaggio non può essere automatico (come vorrebbero far credere gli autori della riforma) ma quei contratti dovranno essere “riattivati”, uno per uno, dalle aziende sanitarie locali. La riattivazione, però, avverrà solo se ci saranno i fondi disponibili: ecco il trucco.
Questo significa che il 95 per cento delle prestazioni che oggi sono possibili dovrà essere interrotto. “Quando tra un anno o due le statistiche ci diranno che il numero dei suicidi nelle carceri e’ aumentato e che la situazione è diventata esplosiva – denuncia Mario Sellini, segretario generale del sindacato degli psicologi – non servirà più discutere e organizzare tavole rotonde per decidere cosa fare per fronteggiare l’emergenza. L’allarme, infatti, viene lanciato oggi e vuole evitare concreti danni umani, sociali ed economici”.
A leggere la nota ufficiale che ha diramato il ministero della Sanità, si potrebbe pensare che l’allarma sia del tutto infondato: “Come previsto dalla legge Finanziaria 2008 – rende noto il ministro Livia Turco – la Conferenza Stato-Regioni ha approvato lo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che pone finalmente in essere la riforma della medicina penitenziaria prevista dal decreto legislativo 230 del 1999 e quasi completamente disattesa per circa un decennio”.
“La riforma – prosegue il ministero – è essenzialmente mirata all’intendimento di realizzare una più efficace assistenza sanitaria, migliorando la qualità delle prestazioni di diagnosi, cura e riabilitazione negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori, nei centri di prima accoglienza, nelle comunità e negli ospedali psichiatrici giudiziari”.
“In tal modo – precisa la nota – si caratterizza come un passaggio fondamentale per la compiuta soddisfazione delle esigenze di salute della popolazione detenuta, operando l’equiparazione, sotto il profilo della tutela del diritto alla salute, della condizione dei cittadini ristretti negli istituti di detenzione a quella degli altri utenti del servizio sanitario nazionale”.
Il decreto naturalmente specifica che per consentire il passaggio di competenze saranno trasferiti al servizio sanitario nazionale anche i fondi necessari a sostenere le spese professionali e di strutture che fino ad oggi sono stati assegnati al ministero della Giustizia.
Ecco il primo punto debole: il servizio sanitario nazionale italiano non è certo ai primi posti per efficienza e razionalizzazione delle spese. Che garanzie ci sono che i capitoli di bilancio che verranno spostati dalla Giustizia alla Sanità vengano effettivamente utilizzati nel modo e soprattutto nei tempi giusti?
Gli obiettivi della riforma sono ambiziosi. Li chiarisce la relazione illustrativa del decreto, dal titolo… impegnativo: “ Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio sanitario nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale”. L’intento della riforma è quello di “individuare percorsi ottimali di prevenzione e cura e modelli organizzativi per la ristrutturazione dei servizi, al fine di adeguare le prestazioni in ambito penitenziario ai livelli del sistema sanitario”. E’ questo il nodo principale: la sanità, nel nostro Paese, per quanto abbia punte di eccellenza che ci vengono riconosciute anche all’estero, nella media – a giudicare dalle vicende che ci raccontano le cronache – non è in… buona salute.
Ciò che preoccupa i medici penitenziari è l’affermazione del ministero secondo la quale bisogna ottenere “la piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi ed degli individui detenuti ed internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale”.
Evidentemente il ministro della Sanità Livia Turco non conosce le strutture sanitarie di alcuni penitenziari: ci sono centri clinici nelle carceri (il centro clinico San Paolo a Poggioreale, quello di San Vittore, quello di Pisa, soltanto per citarne alcuni) che magari fossero a disposizione dei cittadini liberi.
A leggere gli obiettivi della riforma sembra che fino ad oggi della salute dei detenuti non si occupi nessuno (o almeno chi se ne occupa lo fa molto male). Nella realtà, per la maggior parte dei casi, non è così e allora viene il dubbio che la riforma risponda a fini diversi: gestione di potere, trasferimento di fondi, spostamento del controllo delle assunzioni e dei contratti di consulenza da un ministero ad un altro.
Vediamoli, questi obiettivi: in nome della “tutela della salute e del recupero sociale dei detenuti, la continuità terapeutica si pone quale principio fondante per l’efficacia degli interventi di cura e deve essere garantita dal momento dell’ingresso in carcere, durante gli eventuali spostamenti dei detenuti tra diversi Istituti penitenziari e strutture minorili, e dopo la scarcerazione e immissione in libertà”.
Una “dichiarazione d’intenti” che dovrebbe attuarsi in ben otto punti: 1) la medicina generale e la valutazione dello stato di salute dei nuovi ingressi: sono i presidi all’interno delle carceri a dover assicurare le prestazioni di medicina generale, dall’assistenza farmaceutica alla diagnosi precoce, ai vaccini; 2) le prestazione specialistiche: devono essere assicurate da aziende sanitarie territoriali e ospedali, secondo standard uniformi; 3) le risposte alle urgenze: devono essere assicurate sia all’interno delle carceri, sia nelle strutture ospedaliere del territorio; 4) le patologie infettive: oltre ad attuare un’efficace informazione per i detenuti, è previsto lo sviluppo di protocolli per la gestione e l’isolamento; 5) prevenzione, cura e riabilitazione per le dipendenze patologiche: l’assistenza ai tossicodipendenti, il 30 per cento del totale dei detenuti nel 2006, è assicurata dai Sert con la collaborazione della USL del territorio e con la rete dei servizi sanitari e sociali impegnati nella lotta alla droga; 6) prevenzione, cura e riabilitazione nel campo della salute mentale: è previsto un sistema di sorveglianza epidemiologica e di diagnosi precoce accanto alla garanzia di cure pari a quelle fornite dai servizi del territorio. Va comunque assicurato un intervento dello specialista in psichiatria o psicologia clinica; 7) la tutela della salute delle detenute e delle minorenni sottoposte a misure penali e della loro prole: attenzione agli aspetti psico-emotivi della nascita , monitoraggio e assistenza ostetrico-ginecologica e prevenzione e profilassi delle malattie a trasmissione sessuale e dei tumori dell’apparato genitale femminile; 8) la tutela della salute delle persone immigrate: uno specifico programma incentrato sulla mediazione culturale, in cui devono essere impegnati servizi sanitari, istituti di pena, Enti locali e volontariato, per la piena fruizione delle opportunità di cura.
Basta conoscere appena un po’ come funziona un carcere, le necessità di sicurezza, i poteri del direttore e dei dirigenti, per capire che questi otto punti garantiranno come risultato soltanto sovrapposizione di poteri, paralisi di alcuni servizi, impossibilità per strutture esterne di operare realmente all’interno dell’istituto di pena.
E la dimostrazione delle difficoltà future viene proprio dalla risposta del ministro Livia Turco agli allarmi degli psicologi: “non si verificherà alcuna sospensione delle prestazioni di assistenza psicologica – dice il ministro in una nota – infatti gli psicologi già di ruolo, sedici per adulti e quarantadue per minori, passano nei ruoli del servizio sanitario nazionale, mentre, come prevede la bozza del decreto di riforma della sanità penitenziaria, gli oltre quattrocento psicologi a contratto conservano con via Arenula il rapporto già esistente, soltanto che le aziende sanitarie nel cui territorio sono ubicati gli istituti e i servizi penitenziari nonchè i servizi minorili di riferimento potranno stipulare con il Ministero apposite convenzioni per avvalersi delle prestazioni dei professionisti in questione, proprio al fine di garantire la continuità dell’assistenza sanitaria in materia psicologica da prestare ai detenuti e agli internati”. Non ci sarà dunque, secondo il ministro, “alcuna interruzione nel servizio di questo specifico settore”.
Bisogna però fare attenzione ad un passaggio della dichiarazione del ministro: “le aziende sanitarie nel cui territorio sono ubicati gli istituti e i servizi penitenziari… potranno stipulare con il Ministero apposite convenzioni per avvalersi delle prestazioni dei professionisti in questione”. Tradotto dal politichese vuol dire che tutti i medici che ora sono a contratto con il ministero della Giustizia resteranno a casa finché le aziende sanitarie non decideranno se chiamarli e soprattutto chi chiamare e quanto pagare. Intanto la sanità in carcere continuerà ad essere affidata ai direttori, molti dei quali sono capaci di organizzare un ottimo servizio e far fronte alle emergenze. Altri, un po’ meno. Invece di una riforma della sanità penitenziaria sarebbe bastata una formazione migliore del personale direttivo dell’amministrazione penitenziaria.
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