Il Parlamentare.it – In occasione delle diverse presentazioni che si sono succedute in questi mesi del libro “La mia vita dentro, le memorie di un direttore di carceri”, il diario-romanzo di Luigi Morsello giunto alla seconda edizione, l’autore ha raccontato anche alcuni episodi inediti. Abbiamo pensato che potesse essere interessante proporli ai lettori. Come fosse un ideale ultimo capitolo che, non è escluso, trovi posto nella (auspicabile) terza edizione.
di Luigi Morsello
L’approdo a Lodi avvenne nell’autunno del 1997. Fu l’ultima spiaggia.
Ero stato ‘fra color che son sospesi’ (dal servizio) dal novembre 1993. Dopo essere stato riammesso (erano cadute le ragioni della sospensione), fui prima confermato a Pavia e in ventiquattrore dirottato al Provveditorato di Milano. Riassegnato a Pavia dal Tar Lombardia, dopo appena tre mesi fui ritrasferito, sempre al Provveditorato di Milano, dove rimasi in servizio fino al trasferimento a Lodi.
Le vicende di quel periodo danno la misura dell’ignavia delle istituzioni penitenziarie centrali e periferiche.
Ma non serbo rancore. Disprezzo sì.
Il diritto all’alloggio di servizio gratuito è connesso alla titolarità della direzione di un istituto di pena, nel nostro caso la Casa Circondariale di Pavia, carcere nuovo che era stato messo in funzione da me. Era il secondo istituto di pena che facevo… partire: nel 1984 avevo messo in funzione la casa circondariale di Busto Arsizio. Terzo ed ultimo è stata la casa circondariale Lecco.
Come dicevo, il diritto-dovere di fruire dell’alloggio di servizio era condizionato alla titolarità della direzione di un carcere. Nel caso di sospensione dal servizio il diritto scadeva a interesse legittimo, meno tutelato.
Insomma, potevano buttarmi fuori di casa in qualsiasi momento, anche con l’uso della forza pubblica, cioè della polizia penitenziaria.
Viene definito ‘sfratto amministrativo coatto’.
Si immagini lo stato d’animo di chi sta percependo, in seguito alla sospensione cautelare dal servizio il cosiddetto “assegno alimentare” pari al 50 per cento della retribuzione e che, a nemmeno un anno dalla terribile esperienza del tentativo di suicidio, si trova ad essere sottoposto a ben tre procedimenti penali, poi ‘regolarmente’ conclusisi con l’assoluzione piena, privo della forza economica di difendersi efficacemente, con la prospettiva dello sfratto (che mi fu intimato per ben due volte). Giunsi a a minacciare che questa volta la pistola l’avrei rivolta contro altri… è così il primo sfratto fu di fatto accantonato e restò “congelato” fino al trasferimento a Lodi.
Era accaduto in quel periodo che l’ufficio centrale del personale, a causa del pensionamento di Raffaele Ciccotti (direttore a Capraia molti anni prima, che ce l’aveva con me perché non avevp accettato di restare nella struttura dell’isola) venne affidato a Ugo Pastena, funzionario di tutt’altra pasta. È mia convinzione che fu Pastena a bloccare ogni ulteriore tentativo di cacciarmi via di casa, praticamente in mezzo alla strada.
Mi ero attivato per cercare casa a Pavia, ma gli affitti erano proibitivi a stipendio pieno, figuriamoci con uno stipendio dimezzato.
Quindi restai nell’alloggio di servizio di Pavia fino a quando non venni trasferito a Lodi. Solo dopo l’esecuzione di questo trasferimento e l’assegnazione di un direttore fisso a Pavia (una donna, c’è tuttora) il mio successore ritenne di dovermi intimare lo sfratto, il secondo.
Ugo Pastena era andato in pensione e la sua assenza si fece sentire subito.
Ecco, questo significa essere ‘fra color che son sospesi’: un Purgatorio interminabile.
Mentre ciò accadeva, nella più totale indifferenza e con venature di cinismo (la regola aurea è sempre stata, alla toscana maniera ‘chi non fa non falla’), mentre la mia famiglia, mia moglie, i miei figli conoscevano l’abisso della disperazione incredibilmente chi non crollò fui proprio io.
Ero nella fase “maniacale” delle sindrome bipolare (come avrei scoperto anni dopo), per cui ogni mattina mi recavo con la mia autovettura a Milano per presentarmi a un provveditore che non stimavo.
All’inizio la mia attività di servizio consisteva solo nel leggere il giornale.
Poi ottenni l’incarico di ‘funzionario istruttore’ dei procedimenti disciplinari del personale di polizia penitenziaria della regione.
Mi vanto di avere impedito con le mie relazioni istruttorie, acquisite anche con visite negli istituti, che venissero perpetrati abusi.
A dire il vero, non avevo (ancora) perso l’illusione di essere rimandato a Pavia, ma quando realizzai che non sarebbe accaduto mai, feci il tentativo di tornare a Eboli, dov’ero stato a cavallo degli anni ’90.
C’era all’epoca l’Istituto Penale per Minorenni. Poco dopo il mio arrivo venne soppresso: essendo rimasto assieme a una decina di agenti a fare il guardiano delle mura, chiesi il trasferimento a Pavia, per ragioni di famiglia (motivi di studio per i primi due miei figli).
Era la terza volta che chiedevo un trasferimento. La prima fu da Lonate Pozzolo all’Ispettorato Distrettuale di Firenze (durò tre mesi, non mi fu assegnato un alloggio di servizio nemmeno a pagamento). La seconda fu da Firenze a Eboli, ma in questo caso mi dissero di sì perché si trattava di una trappola: la soppressione era programmata già prima del mio trasferimento.
Non ne avevo mai sentito parlare ma nel carcere di Lodi c’era una sezione speciale!
Non solo. Era per ‘sex offenders’ e pedofili!
Trenta posti, isolata sia materialmente che dal punto di vista organizzativo dal resto del carcere.
Il carcere. La sua costruzione datava al 1905. Ristrutturato negli anni ’90, era stato la sede di servizio di Armida Miserere (scomparsa suicida in circostanze tragiche nel 2003, quand’era alla guida del carcere di Sulmona), che lo aveva rimesso in funzione.
La vita di questa collega è superbamente narrata da Cristina Zagaria: “Miserere. Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello Stato”, Palermo, Dario Flaccovio Editore, 2006.
Una ristrutturazione che però non poteva garantire alla struttura la funzionalità delle carceri nuove.
Insomma, ancora una volta denaro sprecato.
Il carcere era una ‘sinecura’: 80 posti in tutto. 30 per la sezione speciale e 50 per imputati e condannati con pena detentiva residuale non superiore a cinque anni.
La sezione speciale costituiva per me un mistero.
Non avevo mai avuto a che fare con simili personaggi, se non per tentare di metterli al riparo da ritorsioni degli altri detenuti.
Come era accaduto, anni prima con Antonio Pastres a San Gimignano.
Allora vinsi la battaglia per superare il ribrezzo verso un solo detenuto. A Lodi erano una trentina! Dei quali mi sarei dovuto occupare in vista dell’applicazione delle misure trattamentali.
Mai e poi mai!
A Lodi c’erano (sono tuttora in servizio) due eccellenti psicologi, Marika Romanini e Pierluigi Morini: mi fecero cambiare idea.
Il periodo lodigiano è stato caratterizzato dell’intenso lavoro svolto con i detenuti in esecuzione di pena detentiva definitiva.
La Romanini si occupava dei detenuti comuni, Morini dei tossicodipendenti.
Con una forzatura dei doveri contrattuali di Morini, prima del mio arrivo a Lodi, venne istituita per decisione del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, la sezione riservata a pedofili e sex offenders: non sapevano dove metterli in condizioni di sicurezza!
Il direttore dell’epoca, Gloria Manzelli, oggi a capo del carcere di San Vittore, accettò. Poi lei andò, per l’appunto, a San Vittore e arrivai io.
Eravamo quattro gatti a lavorare, ma eravamo – scusate l’immodestia – di valore.
L’istituto giuridico che meglio si adattava a un trattamento efficace era ed è tuttora oggi l’ammissione al lavoro all’esterno. Non è un beneficio penitenziario, della specie delle misure alternative alla detenzione: è un modalità di esecuzione del lavoro carcerario extramurario. Una sottigliezza apparentemente burocratica ma che consentiva da muoversi con iniziative costruttive laddove sarebbe stato difficile se non impossibile.
Ciò che lo rende efficace, a mio giudizio, è che l’iniziativa appartiene al direttore del carcere, che presiede il Gruppo di Osservazione Trattamento, che formula il programma di trattamento contenente la previsione dell’ammissione al lavoro all’esterno. Il programma di trattamento viene sottoposto all’approvazione del Magistrato di Sorveglianza, dopo la quale il direttore redige il provvedimento di ammissione al lavoro, all’esterno, che diventa esecutivo dopo l’approvazione del magistrato.
Mentre però il potere del magistrato è limitato al profilo di legittimità (deve cioè verificarer che siano state rispettate le procedure), l’opportunità di ammettere il detenuto è un profilo di merito che appartiene al direttore.
E’ per questo che è sul direttore che pesa il dovere di sorveglianza del comportamento del soggetto ammesso al lavoro.
Insomma, il direttore può incidere efficacemente durante lo svolgimento dell’attività, facendo verificare il rispetto delle prescrizioni lavorative contenute nel provvedimento di ammissione.
Se il detenuto infrange le regole stabilite viene immediatamente sospeso in via precauzionale dal direttore, la revoca poi compete al magistrato di sorveglianza.
Però ci vuole coraggio! Coraggio consapevole!
A Lodi erano circa 40 i detenuti condannati a pena definitiva: sono riuscito ad ammetterne al lavoro esterno fino a 10, cioè il 25 per cento, una percentuale rimasta imbattuta.
Non bastasse questo dinamismo, ho ammesso al lavoro esterno anche un ‘sex offender’ e un pedofilo, che hanno finito di scontare la pena fuori dal carcere, senza inconvenienti e non risultano “ricadute”.
Anzi, il ‘sex offender’ (reo confesso) si è sposato, vive a lavora a Lodi.
Per ciò che riguarda il pedofilo, la lettura della sentenza di primo grado (di assoluzione) mi convinse che era stato condannato in appello ingiustamente.
Inutile dire che nell’affrontare e trattare questi problemi non venne nessun aiuto né dall’amministrazione centrale né dal quella periferica. Fummo lasciati in assoluta solitudine.
Cosa che a me, ormai, a dire il vero non dispiaceva affatto.
Dopo il mio pensionamento la sezione speciale fu soppressa: era entrato in funzione il carcere megagalattico di Bollate!
Lì sono state profuse risorse economiche e di personale in abbondanza.
È stato anche detto e scritto, scorrettamente, che a Bollata ha visto la luce il primo esperimento di trattamento di questa peculiare categoria di detenuti.
In realtà non è successo niente, nella sostanza, di molto diverso da quanto era stato sperimentato a Lodi.
Anzi, fa specie che non sia conosciuto da questi “nuovi” specialisti il lavoro di Pier Luigi Morini “La cura dell’orco” (Sapere edizioni, Quaderni di Criminologia Clinica, 2001).
O forse, invece, non c’è da meravigliarsene.